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MY IMMORTALS

L'ombra del diavolo

Sovente ci si chiede quale pittore rappresenti con maggior forza il percorso travagliato della fede cristiana e l’epopea della conversione religiosa nel mistero dell'immanenza e della trascendenza, in una inevitabile  commistione di valori umani e divini. La risposta appare scontata, per evidenza sia iconografica che iconologica: Michelangelo Merisi da Caravaggio (Milano, 1571-1610). Con una maturità teologica, filosofica e psicologica senza precedenti, se rapportata alla giovane età in cui vennero realizzati i capolavori più conosciuti, Caravaggio indica il dogma religioso e il sentimento compassionevole della Misericordia pur contraddicendone i principi con un'esistenza deprecabile per non dire dannata.

Nella sua rivoluzione caratterizzata, sotto ogni profilo, da luci ed ombre, fa diventare protagonisti gli umili, i borgatari della strada, in una pittura sia religiosa che di genere, cioè di vita quotidiana, quando si cimenta nella ritrattistica di soggetti profani. Ma il destino di Caravaggio è quello di rimescolare sempre virtù e peccato, certezza e dubbio. Come la Madonna della ‘Dormitio Virginis’ del Louvre che ha le sembianze, scandalosamente, di una meretrice romana annegata nel Tevere, con il corpo gonfio ed i piedi nudi troppo esibiti per il rigido moralismo dell'epoca. Ma Dio è ovunque, in tutte le manifestazioni umane. Caravaggio, figlio del naturalismo lombardo, diviene il protagonista di una nuova Rinascenza europea della pittura  con una serie di invenzioni senza precedenti. Elimina il disegno preparatorio – seguendo i canoni della scuola veneta – dà vita alla natura morta (è il capostipite di questo genere nuovo, si pensi al celebre canestro di frutta dell’Ambrosiana), rilancia la pittura da cavalletto, più veloce, più adatta a possibili ripensamenti e, soprattutto, è l’artefice della dialettica del chiaroscuro con impressionanti effetti compositivi. I suoi dipinti sono vita vera, i personaggi hanno il sangue caldo e sostengono la scena in presa diretta, senza ritegno. Non ci sono idealismi, distanze celesti, astrazioni. In questo dipinto forse del 1602, “Giuditta e Oloferne”, c'è tutto Caravaggio. In un’atmosfera tetra, rotta da una folata di vento caldo che scuote la tenda vermiglia dello sfondo, quasi fosse una scena teatrale, si consuma l’orrendo delitto. La Giuditta spicca nella sinistra ed opalescente bellezza che accende i sensi, resa ancor più evidente dal contrasto con la vecchiaccia perversa e terrificante al suo fianco che pare conferire coraggio alla giovane. E' un attimo. Il tiranno Oloferne volge l’ultimo disperato sguardo al cielo. Troppo tardi per reagire. La lama affilata corre. È la fine. Il sangue fuoriesce rabbioso a fiotti verso di noi, con un realismo sconvolgente. Il consiglio di morte trionfa, e il demonio vede sconfitta e dissolta la sua ombra raccapricciante. Ecco Giuditta che vince il ribrezzo ed uccide, nella piena convinzione di aver eseguito un atto di giustizia estremo ma necessario che diviene manifesto simbolico. Un solo colpo mortale in una notte irripetibile che pare la rivalsa per le ingiustizie patite dalle donne di tutti i tempi, anche di quelli a venire. Una scena violentissima che l'artista lombardo dipinge con disinvolto realismo, senza giudizio morale alcuno ma, viceversa, con la piena assoluzione della protagonista che conserva la sua bellezza, specchio di Virtù. Come fosse un ineluttabile contrappasso dantesco, Caravaggio risarcisce a suo modo gli ultimi, i deboli, dove si posa lo 'sguardo' di quel Dio che nessuno vede ma che accompagna i derelitti di via Margutta o di piazza Navona, i luoghi di malaffare che spesso il pittore frequentava. Quel Dio che vive dentro gli occhi di coloro che soffrono la solitudine e l’abbandono in un mondo tristemente ingiusto ed indifferente. 

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