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MY IMMORTALS

Il sole che muore

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Poco conosciamo di Niccolò dell’Arca (Bari, forse 1435 – 1494), per alcuni di origine dalmata, probabilmente il più grande scultore del quattrocento emiliano, su cui meditò un giovane Michelangelo durante il soggiorno bolognese. Con certezza sappiamo che la sua arte – come spesso accade – non gli conferì né fama né danari, tanto da costringerlo ad una vita modesta per non dire misera. Formatosi, forse, in ambiente napoletano ed influenzato dalla plastica drammaticità dell'ultimo Donatello, giunse in una Bologna  fortemente dominata dal naturalismo fiammingo e dalla pittura dei grandi ferraresi quali Francesco del Cossa ed Ercole dei Roberti. Le rare notizie inerenti la figura di uomo ed artista, lo definiscono 'fantasticus et barbarus', sottintendendo così la natura contraddistinta da genio e sregolatezza caratteriale. La sua prima opera documentata è la cimasa dell'Arca di San Domenico, raffinatissimo capolavoro  che domina l'imponente complesso scultoreo, sovrastando il sarcofago decorato ad altorilievo realizzato in precedenza da Nicola Pisano. Attribuito a Niccolò è anche il delicatissimo angiolino reggitorcia sulla sinistra che fa da contraltare al compagno eseguito da Michelangelo stesso sul lato opposto. Le sue fattezze, pregne di una dolcezza infinita e celestiale, sono la testimonianza visibile del prodigio della Bellezza assoluta che solo Dio può ispirare. Ma l'opera più toccante ed emblematica per la straziante tragicità rimane il celebre ‘Compianto’ di Santa Maria della Vita in Bologna (ca. 1490), forse il suo discorso più elevato di sintesi artistica, ed autentico punto di riferimento delle future generazioni di scultori. L’elemento più evidente è lo straordinario dinamismo che le statue in terracotta suggeriscono, in una successione di tempi studiata attentamente. Il Cristo disteso, nell’immobilità della morte, è posto orizzontalmente rispetto ad una visione centrale; attorno, le quattro Marie – quasi impazzite dal dolore – assieme a San Giovanni e Nicodemo, completano la scena creando un’atmosfera di tensione scomposta, diremmo di panico interiore. Una di esse in particolare, Maria di Cleofa (la seconda donna da destra) è trasfigurata nell’espressione di una desolazione lacerante, sconvolgente. Maddalena, all’estrema destra, accorre verso il Cristo martoriato in preda ad una crisi isterica di pianto che le impedisce una dolorosa accettazione della grave sciagura. La sua veste è scossa da una folata di vento ultraterreno, sapiente illusione creata da Niccolò. La Madonna, china verso Gesù, appare più composta (come la Maria accanto), ma il suo grande dolore di madre le sfigura il volto scavato e contratto in un urlo sordo ma acutissimo, che il nostro cuore avverte senza udire coi sensi. Dietro le pie donne si erge – discreta e severa – la figura di San Giovanni che vive un sentimento privatissimo, tutto interiore, tradito solo da una leggera contrazione del volto. Nello stesso piano del Cristo, spostato a sinistra, Nicodemo, rivolto al pubblico come presentasse una scena teatrale, è l’autoritratto dello stesso Niccolò. Lo desumiamo dal martello impugnato nella mano destra e da alcuni attrezzi da scultore messi a cintola. L’opera, unica nel suo genere, è un capolavoro assoluto di umanità e di tecnica esecutiva, senso plastico e cura delle forme. Il vento divino che muove le vesti delle Marie arricchisce la scena di quella vita, quel senso di natura presente, che si contrappone all’immagine di una morte che non lascia speranze di consolazione neppure nella visione divina del Cristo stesso. Un’idea della morte che l’uomo – pur nella promessa della resurrezione – non ha mai voluto accettare e riconoscere quale senso di fine, buio, vuoto. Ma, strano a dirsi, è proprio il pensiero della morte a rafforzare la vita che è in noi.

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