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CAREER

1986

Rileva a Trieste un’agenzia di produzioni fotografiche e videotelevisive nel campo della moda e del teatro. Organizza spettacoli musicali e cura i relativi allestimenti scenografici. Collabora alla produzione e realizzazione di numerosi spettacoli televisivi in ambito RAI.

1996

 

Con Fedele Boffoli fonda a Trieste il Movimento Arte Intuitiva, un collettivo d’interazione fra le diverse facoltà espressive sia umanistiche che scientifiche. Cura un manifesto divulgativo inerente l'Intuizione intellettiva. Inizia l’attività di critico dell’arte con la direzione dello spazio espositivo presso lo Starhotel Savoia Excelsior di Trieste. Con il Movimento ha curato le mostre di:

Giuliana Balbi



Egidio Piras



Fulvia Fermo



Ernesto Cima



Loretta Berdini



Giulio Cason



Boris Fernetich



Fedele Boffoli



Gabriella Machne



Gina Re



Bojan Zivadinovic [+]



Elisa Giacomini



Roberto Gandusio



Alberto Tamburini



Giovanni Mason [+]



Pino Giuffrida



Isabel Carafi



Giampietro Cavedon

Barbara Stefanutti

 

Francesco Modigo



Milena Miculan


Francesco Modigo



Ana Erra de Guevara [+]


Vincenzo Marega [+]


Michele Ugo Galliussi [+]


Lorenzo Loffreda


Donatella Pellizzari



Giovanni Talleri

"Echi dell’ultimo novecento" [+]

grafiche di Annigoni, Guidi,

Guttuso, Nespolo, Maccari,

Schifano e altri maestri



Lino Lanaro [+]


Roberto Bosco


Gruppo Arte 4


Diego Valentinuzzi [+]


Pino Rasile


Bruno Dalfiume


Claudio Dalla Bona

Enrico Marras​

Alida Puppo​



Antonia Grgurin



Luisia Comelli “Luis”


Roberta Mattiussi



Helga Lumbar



Lodovico Zabotto



Alex Pergher



Anita Cossettini [+]



Tullio Clamar



Maria Gabriella Lisjak



Silvia Pavlidis



Gian Carlo Domeneghetti [+]



Roberto Biasiol



Marina Grassi



Sergio Bastiani



Paolo Gasparini



Paolo Carboni

Salvatore Puddu



Orlando Bernardi

Nella primavera del 2002 inizia la collaborazione, quale consulente e curatore, con il Salone d’Arte Contemporanea di Trieste. Con questa struttura presenta artisti di livello nazionale ed internazionale. Tra i più significativi si ricordano:

Lucio Sinigaglia

 

Mirto Testolin

 

Feliciano Dal Prà


Novella Parigini [+]


Al Nitak


Giuseppe Ribechi [+]


Dimitrije Popovic  /Croazia/


Umberto Esposti


Sandra Zeugna [+]


Saverio Sorbise [+]

 

Patrizia Pezzi


Ernesto Portas  /Spagna/

 

Mario Palmerini


Pietro Piccoli [+]


Piero Salustri [+]


Madeleine Moran  /Svizzera/


Giovanni Duiz


Daria Gori [+]


Francesca Grassi (Krishan) [+]

Ezio Farinelli [+]

 

Alain Galet  /Francia/

Fabio Colussi

 

Pierluigi de Lutti [+]


Graziano Cuberli


Matthew Bourbon  /USA/


Gianfranco Maiorano


Salvatore Saccà


Giuseppe Giorgi


Ilario Padovan


Piero Tartaglia


Antonio Sgarbossa [+]


Roberto Comelli [+]


Agostino Cancogni


Domenico Monteforte


Juna Beqiraj  [+]


Christian Fermo


Menotti Birolla


Raffaello Ossola  /Svizzera/ [+]


Karen Kuttner  /Austria/


Endri Kosturi  /Albania/

 

Samantha Fermo

 

Elke Lienbacher  /Austria/

2002


Con la Galleria L’Escale di Spilimbergo 

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Ilir Sabani  /Albania/



Antonio Questorio



Paolo Apolloni



Claudio Cosmini



Flory Marocco



Heinz Seeber  /Germania/



Masa Gros  /Slovenia/



Siro Muedini   /Albania/ [+]



Elvio Zorzenon [+]



Angelo Mazzoleni



Anselmo Bini

 

Luisa Marangon

 

Stefan Tomsa

 

Isabella Cuccato

 

Eva Zuccolo



Stefania Ciranna

 

Walter Xausa



Antonio Baccarin [+]



Mauro Stipanov  /Croazia/



Andjelka Maras  /Croazia/



Giuseppe Denti



 

 

Bruno Boato



Krisma



Manuela Poggioli [+]



Maria Pia Patriarca [+]



Giuseppe Malfattore [+]



Oscar Geretti



Marcello Di Tomaso

Vittorio Tessaro

Nel 2004 ha presentato al Centro Congressi di Porto San Rocco/Muggia (TS) alcune opere del grande scultore Nino Spagnoli (1920-2005), autore delle statue dedicate a Joyce, Saba, Svevo, collocate nella città di Trieste.    (nell'icona: 'La mula de Trieste' - riviera di Barcola (Ts) - 2005)

Con la Galleria Tartaglia Arte di Roma 

Giovanni Bompadre

 

Pietro Piccoli

In collaborazione con la Galleria Berga

Giovanni Bevilacqua

 

Enrico Del Rosso

 

Manuel Ondei

 

 

 

 

 

 

 

Il 26 settembre 2014, presso la Sala Consiliare del Comune di Turriaco (Gorizia), ha presentato l'esposizione commemorativa 'Transiberiana' del pittore e scultore Bruno Chersicla (1937-2013), già Guinness dei Primati 2001 per il dipinto più grande del mondo ( quasi 10.000 metri quadrati di pittura), realizzato nel 2000 in Piazza Unità d'Italia a Trieste (foto a lato)

Presso la Fondazione Mazzoleni  di Alzano Lombardo

ha curato gli eventi espositivi di:

 

Monica Bisogno /Svizzera/

 

Rosy Mantovani

A Palazzo Pepoli Campogrande di Bologna

ha curato le esposizioni: 

 

'Sinestesia'

 

'Visions' 

'Kirkos - Le dimensioni del tempo'

La mia televisione

Con il Gruppo Realarte di Sant'Elpidio a Mare (FM) ha presentato, in diretta televisiva su SKY, numerose opere di artisti contemporanei. Tra i nomi principali si ricordano:

ARTISTI

ITALIANI



Carla Accardi



Valerio Adami



Getulio Alviani



Franco Angeli



Pietro Annigoni



Enrico Baj



Giacomo Balla



Alberto Biasi



Alighiero Boetti



Agostino Bonalumi



Massimo Campigli



Michele Cascella



Felice Casorati



Enrico Castellani



Giorgio Celiberti



Francesco Clemente



Sandro Chia



Giorgio de Chirico



Roberto Crippa



Dadamaino



Gino de Dominicis



Roberto Delé



Pierluigi de Lutti



Filippo de Pisis



Piero Dorazio



Lucio Fontana



Giovanni Frangi



Omar Galliani



Piero Gilardi



Giuliano Giuliani



Giorgio Griffa



Jonathan Guaitamacchi



Virgilio Guidi



Renato Guttuso



Riccardo Licata



Gianfranco Meggiato



Amedeo Modigliani



Mimmo Paladino

Luca Pignatelli

Rabarama



Ottone Rosai



Giuseppe Santomaso



Emilio Scanavino



Gino Severini



Ettore Spalletti



Alberto Sughi



Orfeo Tamburi



Tancredi



Mario Tozzi



Giulio Turcato



Giuseppe Uncini



Valentino Vago



Emilio Vedova



Gilberto Zorio

ARTISTI INTERNAZIONALI

Jonathan Allen

Arman

Donald Baechler

Christo



Shepard Fairey 

​

Sam Francis

Keith Haring

 

Hans Hartung



Robert Indiana

Paul Jenkins



Jiri Kolar

Mark Kostabi

Heinz Mack

Georges Mathieu

Mr. Brainwash 



​Penck



James Rosenquist

John van der Valk

 

 

Andy Warhol

Victor Vasarely

LE MIE BIENNALI 

55. Biennale di Venezia

Progetto "Overplay"​ - Palazzo Albrizzi



LA TESI 

INVERSIONE DEL REALE E PUNTO ZERO
 

Sono fermamente convinto che le espressioni più adoperate, nell’attuale momento storico, siano la parola 'crisi' oppure 'condizione critica'. Per converso, paiono in via di estinzione parole come 'umanità', 'fiducia' oppure 'cooperazione', che pure nei tempi antichi rivestivano un significato fondamentale nelle strutture sociali. Ognuno di noi si sente pervaso da uno stato di estraneità ed alienazione verso il mondo circostante che, in qualche modo, compromette il naturale sviluppo della dimensione più autentica dell'Essere, quella del Cuore sacro. Ci siamo accorti – nell'era della comunicazione globale – che i potenti mezzi tecnologici creati per semplificarci la vita sono diventati, in realtà, delle perniciose armi di 'distrazione' di massa utili ad una lenta ma inesorabile deriva dell'Individualità che è la nostra Essenza. Abbiamo puntato tutto sulla tecnologia diremmo 'esteriore' identificabile nei nostri giocattoli elettronici per creare una rete di connessione che crediamo perfetta. Ma, purtroppo, abbiamo smarrito il collegamento con le nostre radici umane (l'origine del Senso) ed abbandonato quella ‘tecnologia interiore’ che tutti possediamo nell'intimo quale straordinaria facoltà che consente di sentirci tutti nel Tutto, nella perenne unione dei tre regni: fisico, mentale e spirituale. Nella tradizione dell’arte figurativa, proprio nel momento di una crisi che manifesta i primi sintomi lontani verso la secondo metà del '700, si delinea la figura del critico (il cui termine deriva proprio dall'etimo greco 'krisis' da 'krino'=io giudico) che interviene per analizzare, valutare e porre ordine quale medico al capezzale del corpo dell'arte. Nasce l'Estetica moderna, la volontà di catalogare e fare ordine. Un'esigenza che si farà sentire ancor di più nei secoli a venire, con le rivoluzioni post-figurative che avrebbero totalmente scardinato i canoni della rappresentazione tradizionale. Oggi, all'insegna del 'tutto è possibile' e 'tutto può essere arte’, siamo necessariamente chiamati a maturare uno spirito critico collettivo attraverso una coscienza vigile. Per dirla con un'espressione tanto usata  (ed abusata) è tempo di scendere in campo, noi tutti, per evitare davvero che l'insensatezza distrugga quanto di buono la storia ha saputo insegnarci con impegno e dedizione. I testi religiosi dell'antichità scrivevano che dopo la crisi arriva l'Apocalisse, e forse la stiamo già vivendo. Ma, il significato originario del termine (lo studio delle radici ci riconduce davvero alla verità delle parole!) va interpretato correttamente. 'Apokalypsis', in greco, indica 'rivelazione'. Ed ora, la nostra insipienza contemporanea, i dissesti economici, politici, religiosi, il sociale che ci sta franando addosso, non ci stanno, forse, espressamente rivelando qualcosa? Cosa potrebbe ancora accadere di più esplicito?'Overplay' parte da questo presupposto. Il progetto sollecita la consapevolezza che un gioco perverso è finito perché siamo giunti al punto zero e da qui dobbiamo ripartire per costruire il Mondo Nuovo sotto tutti i profili ma, principalmente, quello umanistico. Il novecento – specie nella seconda parte – è stato il secolo che ha umiliato e raso al suolo i valori del Bene, del Buono e del Bello (quindi del Vero) per concedere spazio esclusivo al credo scientifico e tecnologico dei cosiddetti 'poteri forti'. L'inizio del terzo millennio ha scosso violentemente tutte le fondamenta della Coscienza universale. I suoi valori devono essere rivisti qui ed ora, perché il tempo è già scaduto. 'Overplay', attraverso una ponderata ricognizione fra i secoli dell'età moderna – con opere-simbolo dei rispettivi periodi che ben si inquadrano con il tema di fondo della 55.Biennale, ovvero il ‘Palazzo Enciclopedico’ – vuol proporre una visione storica di sintesi ed una comparazione sia estetica che antropologica nel tempo, fino alle inquietanti domande della sezione installativa 'Analysis' dove ci si interroga sul senso di una rappresentazione della contemporaneità che appare senza direzione.E’ tempo di mettere in discussione il senso delle continue parate di immagini o delle spettacolose provocazioni di cartapesta che, invertendo il senso della realtà, hanno – il più delle volte – solamente procurato uno shock visivo fine a se stesso. Forse è giunto il momento di un recupero del gusto contemplativo e di una nuova cultura profondamente umana (non identificabile con alcuna dottrina prestabilita) che sorga dal Silenzio attivo e dall’attenzione costruttiva volta al proprio Sé interiore.  In questa ottica, gli artisti non devono rischiare di diventare dei 'revenant', dei morti-viventi che si aggirano fra le rovine di una società sfinita e disillusa, in cerca di improbabili consensi. Il rischio è concreto e non va sottovalutato. 'Overplay', in definitiva è anche questo: un potente richiamo al Valore primigenio del 'fare per conoscere',  ovvero un ritorno alla dignità etica ed estetica di una dimensione assoluta che ha saputo – attraverso il processo della creazione – avvicinare l'uomo alla sua parte più intima ed autentica.


 





 

 

 

 

 

 

INVERSION OF THE REAL AND ZERO POINT

I am absolutely convinced that the idioms ‘crisis’ and ‘critical state of affairs’ are the most appropriate expressions at this point in time. On the converse, it appears that idioms such as ‘humanity’, ‘trust’ and co-operation’, which have, ever since ancient times, held a significant meaning for all social structures, now seem to have diminished.  All of us feel permeated by this sensation of foreignness and alienation towards a world, that jeopardises the natural development of the most authentic characteristic trait of humanity: namely, the Sacred heart. We are aware that - in the age of global communication - powerful technological devices that were created to simplify life, have in reality, become ‘malign’ arms of avocation, which entail a slow but inevitable deprivation of our Individuality and as such our very Essence of Being. Having directed so much of our devotion towards technology, we are imposing identifiable appearances to our electrical toys in order to create a matrix of conjunctions that we can utterly believe in. The consequence of the advance however, has led to the perdition of the internalized derivation of our being (the origin of Meaning). Furthermore, it has abandoned that ‘interior technology’, which like the intestine, endows us with the exceptional ability to feel part of ‘the Whole’ within the eternal union of the three realms: mind, body and soul. Concerning the tradition of figurative art, there was effectively a crisis after the second half of ‘700, that manifested the first articulated opinions that would develop into the figure of the critic. (The term critic derives from the Greek etymology krisis from krino= I judge). The critic’s role is to analyse, evaluate and to attempt to bring order to the body of art. Once the modern aesthetic was born, with it came the desire to catalogue and to create order. This demand became ever more substantial during the subsequent centuries when the upheaval/ imposition of the post-figurative art was threatening to subvert the canon of traditional representation. Today, with the fundamental belief that ‘everything is possible’ and ‘anything could be art’, we are inevitably asked to mellow our inherent critical opinion, by attentively cultivating our visual awareness. To quote an expression used (and abused) many times before: it is time to clear the ground, which is an appeal that, with commitment and devotion, we should act to avoid the absurdities that destroy everything our past history has taught us. Religious texts from the ancient world have predicted that after the crisis there would be the Apocalypse, and perhaps we are already living it. The clear implication of this proverb, must however, be correctly interpreted  - the study of etymology really takes us back to the truth of the words! - and yet, the true meaning of this expression can only be defined accurately by looking at it’s historical origin. Apokalypsis, in greek, indicates ‘Revelation’. In the wake of considering our contemporary ignorance, economic decline, politics, ecclesiastics and welfare weighing us down, does it not, perhaps, obviously reveal something to us? Could it be more explicit? ‘Overplay’ commences at this premise. This project is an appeal to our understanding, that an obnoxious game has been terminated because we have arrived at the zero-point. It is from there that we are asked to restart constructing our New World, keeping in mind all aspects, but especially the aspect of humanity. The twentieth century - and in particular the latter half - has been the century which has humiliated and utterly demolished the values of the good, the welfare and the beauty (thus the true main Values), in order to grant space to the credo of science and technology, of the so called ‘powerful forces’. The beginning of the third millennium has violently subverted the core of the universal Consciousness. Its values have to be reconsidered here and now, because time has already elapsed. ‘Overplay’, by means of a fundamental elucidation of the century of modernity  - with symbolic artworks of particular periods of time that correspond to the given theme of the 55. Biennale “Palazzo Enciclopedico” - aspires to present a historic vision of synthesises and a comparison of both aesthetical and anthropological aspects, in relation to time. The discourse fulminates at the unsettling question posed by the installation ‘Analysis’, where people are asked to challenge the denotation of contemporary art, which to us appears being at random. It is time to reconsider the significance of both, the continuous parade of images and the spectacular provocations of ‘papier mache’ which, inverting reality, have – predominantly - deployed merely a visual shock. Perhaps we have reached the turning point, and thus the return to a contemplative artistry and a new, sophisticated culture (that is not aligned to any predefined doctrine) whose source of energy derives from contemplation and constructive attention directed to the inner self. From this viewpoint, artists would not have to risk becoming ‘revenant’, who stray aimlessly through the debris of a steeped and disillusioned society, always in search of remote acceptance. The risk is palpable and should not be underestimated. ‘Overplay’ is also a heartfelt appeal to look at the predestine Values that urge ‘learning by doing’. Moreover, it is an appeal to return to the ethical glory and aesthetics which are part of an absolute dimension that brings together – by means of the creative process – the human being and his innermost and purest self.


 





















Daniele Basso e Giancarlo Bonomo con l'opera 'Les Plis de la Vie'

Giancarlo Bonomo - Nevia Pizzul Capello - Daniele Basso

Palazzo Albrizzi - Salone delle Feste

 Installazione 'Overplay' di Emiliano Bazzanella con Daniele Basso 

Team artisti selezionati da 'Eclipsis'   

 



Paolo Anselmo

 

Roberto Baronti 

 

Daniele Basso

 

Andrea Boldrini

 

Alessandro Bulgarini

 

Giuseppe Denti

 

Camillo Francia

 

Maria Micozzi

 

Raffaello Ossola

 

Sonia Passoni 

 

Maria Pia Patriarca



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 55.Biennale di Venezia - Palazzo Albrizzi, inaugurazione evento 'Overplay'

 

Sezione storica. Il capolavoro in mostra

Antonio Allegri detto il Correggio  -  'San Giovannino con capretto'  (1525)





 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pittura del Correggio rappresenta il momento più alto del Rinascimento maturo che prelude la grande stagione del manierismo italiano. La sua indagine sugli stilemi compositivi degli illustri contemporanei, da Leonardo a Michelangelo, lo conduce ad una maniera espressiva di assoluto livello, pur rimanendo quasi sempre confinato nella sua Parma, ad una certa distanza dalle grandi capitali dell’arte. La perfetta sintesi sentimentale del Vasari (che vede le sue pitture pregne di quella ‘candidezza’ e ‘delicatezza’ che suscitano una ‘stupendissima maraviglia’), contiene in sé la chiave più eloquente per la comprensione di questo sublime pittore che esprimerà il vertice del suo genio nella celebre ‘Assunzione della Vergine’ del Duomo di Parma (1524). Qui, il Correggio sfonda la cupola e fa apparire un cielo nuvoloso in cui, con un effetto illusionistico  senza precisi riferimenti geometrici, si librano leggiadre figure sacre che accompagnano il volo divino della Vergine. Un’opera assoluta senza precedenti che avrebbe rivoluzionato la concezione decorativa delle volte e delle cupole. Il ‘San Giovannino con capretto’ presente in mostra, evoca i raffinatissimi motivi della Camera della Badessa del Monastero di San Paolo a Parma (1519), la cui pregevole esecuzione costituirà la premessa all’impresa monumentale del Duomo. Questo San Giovannino, di probabile committenza privata, richiama inoltre la fisonomia e la postura del puttino centrale della ‘Madonna di San Giorgio’ di Dresda, pala di raro splendore e vitalismo cromatico, dipinta intorno al 1530. La dolcezza infinita del puttino giocoso qui proposto, che reclina delicatamente il capo e volge lo sguardo verso una visione sublime, contiene in sé una duplice natura – umana e divina – che travalica il tempo e conserva inalterata la sua originaria freschezza compositiva. Il capretto, figurina complementare della piccola composizione, è esplicito riferimento al prossimo martirio del Battista per ordine crudele di Erode Antipa.   

       
 

Correggio’s​​ paintings represent the peak of the late Renaissance which precluded the period of Italian Mannerism.  His thorough investigation of the stylistic language of recognized artists, from Leonardo to Michelangelo, conducted his own visual language to the highest level of expression. He achieved this despite having never travelled beyond the borders of Parma, which could hardly be called one of the greater capitals of art. The lyrical synthesis pictured by Vasari, (who described Correggio’s paintings as having an inherent purity and delicacy which create a sensation of ‘stupendissima maraviglia’- stupendous marvel-), contains an important key to comprehend this sublime painter. The painting/ fresco called "Assunzione della Vergine" within the Cathedral of Parma (1524) embodies the extent of his inherent genius. Here, detached from any sense of perspective composition, the Correggio’s appears to break through the dome’s cupola opening into a cloudy sky in which mellifluous, holy figures accompany the divine covey of the Holy Virgin. This painting, unprecedented in its perfection revolutionized the concept of rotundities and cupolas forever. Displayed at this exhibition, his work, "San Giovannino con Capretto", shows the deeply sophisticated motive of the abbess’ room at the monastery San Paolo in Parma (1519). It is a vital composition that reflects equally on the monumental achievement and ‘raison d’etre’ of the dome. This “San Giovannino’s” posture and physiognomy, which is of a rare magnificence and colorful vitality, noticeably resembles the principal angel of the painting “Madonna di San Giorgio” at the Cathedral in Dresden. It was probably commissioned by a private citizen and was painted in approximately 1530. The delicateness of this playful angel, whose head is bending ever so slightly forward whilst looking in the direction of the epiphany, depicting the dual natures of the human and the divine, is timeless and the immutability of its original freshness of composition. The kid, being the complementary part of this small composition, is an explicit reference to the Baptist’s martyrdom on behest of Herod Antipas.  

  

             

 

 




 

 

SEZIONE STORICA

altre partecipazioni 

Bartolomeo Caporali

Giacomo Guardi 

Jacob Jordaens

Théodore Rousseau 

Giuseppe Santomaso

Mario Schifano

Emilio Vedova 

Franz von Stuck

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Bartolomeo Caporali  (1420 - 1503)

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Giacomo Guardi (1764 - 1835)

Jacob Jordaens (1593 - 1678)

53. Biennale di Venezia

Progetto “Blue Zone” - Scoletta San Zaccaria



 

LA TESI 

POLVERE E STIMMUNG

 

La Biennale di Venezia, dai tempi lontani della sua storia a oggi, non è solo rassegna internazionale di opere d’arte, installazioni d’avanguardia, provocazioni intellettualistiche o creazioni ludiche, ma è soprattutto specchio ed interpretazione dello spirito culturale di un’epoca, nel legame indissolubile di indagine estetica e costume. Questa 53. Biennale, intitolata “Making Words” ovvero “Fare Mondi” così come indicato dal suo direttore Daniel Birnbaum, impone un’attenta analisi e riflessione in un momento cruciale della storia umana, così gravemente dilaniata e divisa non solamente nei valori etici e morali ma anche nei sistemi politici, religiosi ed economici. L’analisi richiede la messa a fuoco di un sentimento dilagante da navigazione a vista nell’imperante assenza di riferimenti certi e di grandi personalità illuminanti preposte a condurci fuori le secche di una decadenza artistico-culturale senza precedenti. Certo la potenza dei mezzi mediatici è indiscussa. Questo ha consentito, nella concezione contemporanea dal dopoguerra in poi, una possibilità divulgativa del prodotto estetico veramente straordinaria e, nel contempo, una notevole scelta espressiva. Fenomeni quali la pop e la video art, l’arte cinetica o la dimensione illusionistica dell’optical, sono stati lo specchio fedele di queste potenzialità immense e di un costume sociale che voleva l’assoluta liberazione dell’elemento fantastico atto a stupire, creare emozioni retiniche e shock visivi. La molteplicità dell’espressione ha portato, di conseguenza, a quella frammentazione che oggi è in atto più che mai. Molti critici ed esteti considerano opera dell’arte un felice prodotto industriale quale il design automobilistico o un elemento di arredo, come una poltrona particolare o un mobile. Qualcuno poi arrivò a definire “arte contemporanea” il comunissimo tappo a corona delle bibite in vetro battezzandolo come frutto del “genio degli anonimi”, così come il cavatappi a bracci o altro prodotto legato al funzionalismo quotidiano. Persino qualche trasmissione televisiva di largo ascolto impostata su sequenze incalzanti è stata ritenuta tale. Insomma, il postulato del “tutto può essere arte” è stato ammesso come verità plausibile nella nostra epoca così complessa e controversa. Una considerazione pericolosa che può negare il concetto stesso di “arte” nel suo etimo originario, dal greco techne, inteso come capacità del fare con la mente ed il cuore un qualcosa di inedito e quindi con quel carattere di unicità e non serialità come, per converso, il prodotto industriale o artigianale. La scelta di “Making Worlds” potrebbe contenere dunque un fermo invito a ritornare all’originalità dell’invenzione di mondi paralleli che suggeriscano nuovi punti di vista, dimensioni incommensurabili frutto dell’ingegno creativo e delle infinite pulsioni interiori legate al sentimento sottile che la vita fa scaturire nel suo incessante divenire, nell’ottica di un rilancio di valori antichi almeno quanto l’uomo. In questo contesto, il progetto “Blue Zone”  intende riportare al centro della discussione il rapporto tra estetica d’arte e percezione collettiva nello sfondo contemporaneo di una babele comunicativa di opinioni, dogmi surrettizi e tendenze modaiole manipolate da tuttologi da salotto sempre pronti ad indicare direzioni e punti di riferimento senza possedere una bussola adeguata. Un progetto non tanto di denuncia ma – a mio avviso – di contenuti affermativi su cui porre estrema attenzione perché solleva inquietanti interrogativi sui valori estetici in un momento storico di transizione. La domanda è: siamo al preludio di un inizio o stiamo cavalcando una fine? Si profila un mondo nuovo di valori o stiamo assistendo ad una progressiva e caotica decadenza della tradizione estetica? La scena evidenzierà questa “Stimmung” collettiva nella condizione surreale (ma forse non troppo …) di una galleria abbandonata con opere semi-occultate, realizzate da artisti affermati selezionati dai curatori. Luci azzurre metafisiche e monitor perennemente accesi creeranno una situazione interattiva in cui il pubblico sarà chiamato ad intervenire negli idiomi più disparati. Non sarà dunque una banale e scontata provocazione spesso di casa qui in laguna, ma un qualcosa di più propositivo. Certo, non vogliamo credere in nessun modo che l’arte – dopo la perniciosa sequenza di negazioni contemporanee – stia davvero morendo. Più propriamente (e positivamente) vorremmo parlare di crisi, momento di riflessione, stand by o quant’altro conferisca speranza di necessaria continuazione del concetto di creare. Una pulsione, questa, nata con l’uomo già dal tempo dei graffiti e dipinti della caverna francese di Lascaux, la cosiddetta Cappella Sistina della preistoria, risalenti a circa 18/20.000 anni or sono, che rivelano l’intimo animo di un uomo tutt’altro che primitivo volto a ricercare il senso delle Cose del mondo affermando, attraverso la realizzazione espressiva compiuta, le ragioni dell’Essere nel divenire del Tutto.




 

53. Biennale di Venezia - Progetto multimediale 'Blue Zone'

 

Venezia - Scoletta San Zaccaria

'M.A.I.' - Movimento Arte Intuitiva

SINTESI DEL MANIFESTO PROGRAMMATICO E DEI PRINCIPI FONDAMENTALI

a cura di Giancarlo Bonomo



L’idea di un collettivo-scuola di interazione viene concepita a Trieste nel 1996. In tale anno si delineano i principi essenziali del pensiero intuitivo aperto a tutte le possibilità cognitive e creative intese quale strumento di relazione con la propria Coscienza



L’etimologia del verbo intuire, di derivazione latina, corrisponde a ‘intueri’ ed indica la facoltà del ‘guardare dentro’, entrare con la mente sintetica nelle segrete Cose aldilà delle infrastrutture analitiche razionali, emotivo-passionali e fisiche. L’intuizione intellettiva è dunque una fioritura improvvisa della mente, una visione transrazionale che comprende aldilà del tempo, senza ragionamento o esperienza precostituita ed apre la strada alle frontiere del Cuore o Mente totale. Potremmo definire l’intuito come un organo sottile collegato alla sede dell’Anima cosmica. Liberare l’intuizione facendola agire direttamente con l’ausilio della personalità – che si manifesta a sua volta in un’identità definita – significa porre in essere quelle condizioni per cui l’uomo esprime un valore sacro, autentico della propria Umanità e, dal suo particolare, si avvia alla comprensione dell’universale principiale. Il piano superiore dell’intuizione si contrappone alla conoscenza empirica della realtà concreta che poggia, invece, sul relativo. La dimensione dell’Intelligenza pura ed infinita – che è il presidio di Bellezza, Bene e Amore – si pone, dunque, aldilà del pensiero organizzato e della nozione. La conoscenza limitata di informazioni e l’esercizio della memoria non sono Intelligenza in senso lato ma una piccola parte di essa. In tale dimensione superconscia, ogni cosa non è ‘pensata’ ma segue un disegno preciso. Ad esempio, nel corpo umano molte funzioni si svolgono con l’assenza di un comando da parte della mente (es. il battito cardiaco, le sintesi chimiche, la respirazione). L’Intelligenza suprema e non il pensiero ha creato la Natura. La materia vivente, attraverso diversi piani di coscienza o fuochi (fisico, emozionale, mentale e causale, tutti a loro volta bipolari) si espande nella dimensione reale che si fonda su tre aspetti armonici essenziali: principio maschile, femminile e tempo-movimento. Tali piani si risolvono in un fuoco unico che corrisponde all’Unità principiale micro e macrocosmica in cui vi è assenza di separatività. Non esisterebbe, dunque, una reale differenza tra materia e spirito, essendo quest’ultimo materia ultrasottile. Sono aspetti polari della medesima dimensione. Nella considerazione che in noi vi sia tutto da e per sempre, più che imparare è essenziale, quindi, ricordare. La Verità è la dottrina suprema ed in essa convergono arte, scienza, culti sacri e filosofie profane. In questa indagine, l’ente umano attraverso la volontà, il sentimento ed il grado evolutivo dei propri campi di coscienza, opera nel mondo reale restituendo a se stesso una soggettiva rappresentazione, frutto di un determinato atteggiamento mentale. Nell’Unità fondamentale del Tutto, ciò che è in basso riflette ciò che è in alto e la Terra ciò che è nel Cielo. Chi conosce se stesso conosce, di conseguenza, il piano dell’Intelligenza divina.



***



Fra le altre finalità, l’associazione cura la tutela, la valorizzazione e la difesa del patrimonio artistico, storico, culturale ed ambientale promuovendo scambi didattici con altre associazioni ed istituzioni. Nell’ottica della trasparenza, l’associazione è apartitica, non ha fini di lucro, vieta la propaganda ideologica politica, religiosa o relativa a gruppi esoterici e sette di qualsiasi natura. Al suo interno vi operano soci attivisti, sostenitori e semplici simpatizzanti. Gli incontri settimanali e le manifestazioni ufficiali sono liberamente aperti al pubblico e propongono un’unione fra le varie espressioni della creatività e della conoscenza.

Con decreto n. 49 del 23.02.99, il M.A.I. ha ottenuto l’iscrizione nel Registro Generale delle associazioni di volontariato della Regione F.V.G. Nello stesso anno è stata iscritta all’Albo delle associazioni della Provincia di Trieste. Dal 2002, legale rappresentante e presidente eletto del Movimento è Giancarlo Bonomo.

APPARATI DI RICERCA Studi critici, storici, filosofici

La contemporaneità 



Interpretare un’opera d’arte significa compenetrare lo spirito di chi l’ha concepita e prodotta e, di conseguenza, la tensione vitale, il pathos, il sentimento che la stessa emana nel contesto di un’indagine conoscitiva sopra l’idea e la sua origine. Successivamente si giunge - spesso per intuizione intellettiva - al significato razionale o irrazionale, ed è tramite l’opera che si ricostruisce il mondo interiore dell’artista, come fosse la lettura di una mano metafisica o di una scrittura occulta. Interpretare è dunque rivitalizzare una comunicazione attiva per trasmetterla in maniera sintetica, immediata e comprensibile a tutti. L’arte esige rispetto perchè rappresenta il valore più alto della coscienza umana aldilà del tempo, ed è il riflesso della nostra civiltà più evoluta. Arte è percorso di conoscenza in qualunque forma essa si esprima. Il passato impone una rispettosa apologia perchè da questo deriva la nostra identità culturale di oggi. Conoscerlo è necessario per comprendere i movimenti contemporanei e le nuove tendenze. Il cammino dalla figurazione all’informale, dal classico al moderno è stato graduale e frutto di ricerche collegate fra loro di concerto con la filosofia, la politica, la religione. L’epoca odierna - nella confusione dei valori e dei modelli formativi - impone onestà ideologica e competenza quali strumenti indispensabili per fare chiarezza, valutare e distinguere la verità di un’opera dalla banale provocazione o dall’esercizio estetico fine a se stesso abilmente pubblicizzato dal mercato. L’arte contemporanea deve puntare senza timore al recupero della sua funzione più autentica, quella educativa, al fine di perpetuare un preciso momento della nostra storia. Il compito degli operatori del settore dev’essere volto a promuovere e favorire l’arte di qualità e contenuto a dispetto dei fenomeni legati alle mode effimere ed ai falsi profeti, con lo sguardo attento alle nuove generazioni.

Boetti nel mondo



Le celebrazioni internazionali dedicate ad Alighiero Boetti (1940-1994) 
Reina Sofia (Madrid) – Tate Modern (Londra) – MoMA (New York) nel 2011/2012































La ricchezza dell'Arte Povera 



Il grande artista torinese – ora nel momento più alto della sua iperbole leggendaria che lo vede celebrato in grandi eventi internazionali – ha saputo rappresentare come forse nessun altro, la straordinaria coniugazione di slancio creativo, pensiero razionale e tecnica esecutiva. Ma, soprattutto è stato colui che ha idealmente concepito un'unione umana priva di qualunque divisione etnica o antropologica. Lo sguardo centrifugo di Boetti, nelle celebri mappe, è rivolto ad un mondo certamente diviso culturalmente e politicamente (ne sono prova le variopinte bandiere delle composizioni) ma sostanzialmente unito sotto il profilo umano. Boetti “mette al mondo il mondo” (per riportare un suo celebre motto) e lo rappresenta con il senso della bellezza nel cuore. Bellezza del pianeta, dei singoli paesi, delle tradizioni culturali, delle realtà così lontane ma così vicine nel suo ideale comunitario. Un confronto che l'artista ricercherà sempre nel corso di una vita ricca di intuizioni, innovazioni e pensieri creativi. Gli arazzi ricamati, oggi il simbolo della sua opera più qualificata, furono progettati in Italia e realizzati nelle terre lontane del Pakistan ed Afghanistan dalle donne del luogo, laddove la tradizione del ricamo era da secoli radicata nella cultura locale. Un ponte che Boetti, intelligente e cosmopolita, manteneva sempre solido e che costituiva parte integrante del suo cammino di crescita interiore. Arazzi che rappresentano la sintesi di una conoscenza che comprende in sé le ragioni dell'arte, e non solo, ma anche quelle del pensiero organizzato dalla cognizione rigorosa. Ne sono prova le geometrie delle sue griglie policrome, composizioni razionali perfette che racchiudono elementi quadrati accostati cromaticamente secondo un'armonia misteriosa che solamente Boetti sapeva concepire. Tutto doveva letteralmente “quadrare” e trovare la giusta collocazione. Ed in questa teoria di ordine razionale e pulsione creativa egli inseriva i suoi pensieri paradossali, le osservazioni sul mondo, i messaggi subliminali. Le lettere dell'alfabeto, incastonate come tessere di un mosaico, danno vita a motti ed incisi di senso compiuto che riportano la freschezza del Boetti-pensiero, la sua visione di un mondo che, in qualche modo, amava osservare sotto la lente di un'intelligenza acuta e sottile che mescolava contraddizioni, paradossi e verità conclamate. Ha saputo inventare ed inventarsi senza il timore di sperimentare. La povertà dei materiali, adoperati specialmente nella prima fase della sua luminosa carriera, ha evocato per contrasto la ricchezza di idee ed una cultura che oggi definiremmo interattiva, da autentico artista d'avanguardia. In qualche modo ha saputo anticipare quel criterio di multimedialità che oggi dilaga ovunque nella comunicazione di massa, dall'arte plastica alla televisione. E lo ha fatto attraverso una modalità inedita ed irrituale, utilizzando materiali e colori armonizzati con metodo. La tradizione orientale del ricamo gli aveva trasmesso l'amore per il dettaglio, quella cura del particolare che rendeva preziose e compiute le sue composizioni. Da vent'anni a questa parte, i riflettori delle grandi istituzioni museali del mondo e del collezionismo di qualità sono costantemente accesi sulla sua opera. Già ampiamente celebrato in vita, Boetti oggi è un nome di riferimento dell'arte concettuale in costante ascesa. Nel 2011 è partito il grande progetto che lo vedrà protagonista della scena internazionale, dall'Europa al MoMA di New York. L'arte italiana contemporanea, grazie anche al suo lavoro incessante di ricerca, può ancora competere a testa alta con i giganti americani della nuova generazione post Pop Art, accanto ai nomi di quella Transavanguardia che ha visto proprio nel nuovo continente la fioritura del suo successo.

 

'Oltre la paura'

Pubblicazione-concept 3D (estratto dalle conversazioni a carattere filosofico, psicanalitico e antropologico sulla tematica richiamata dal titolo). Pitture di Raffaello Ossola



La pubblicazione è entrata ufficialmente a far parte della Biblioteca dello Psicotraining Paracadutistico di Roma diretto dalla dr.ssa Stefania Salerno e dal dr. Luigi Pasquinelli, quale testo di consultazione per i corsi propedeutici  di introduzione al lancio, nel complesso rapporto tra paracadutismo e paure parassite, nell'ambito degli sviluppi psicoterapeutici. Inoltre, una copia della pubblicazione è stata donata alla Biblioteca Comunale di Villa Santo Stefano (FR) su gentile invito del sindaco Giovanni Iorio. Alcuni passi della complessa ricerca sono stati citati nella TESI DI LAUREA 'In the middle of nowhere' (=In mezzo al nulla) presentata e discussa da Juna Beqiraj presso l'Accademia di Belle Arti di Bologna, nella Commissione d'esame presieduta da Beatrice Buscaroli con relatore Rinaldo Novali.

 

L'angelo del Buon Consiglio



L'Intuizione pura, dimensione 'prima' oltre il pensiero, è rivelazione portata da ciò che potremmo definire Angelo del Buon Consiglio, una sorta di voce interiore che ci guida, uno sguardo nuovo ed improvviso, ed è dono sacro. Il suo spazio ideale è l'Immaginazione. La mente razionale è solamente un servo fedele, dunque un piano inferiore. Il pensiero vola e gira senza fine lungo una circonferenza. Ma, se pensiamo alla Verità come ad un cerchio in moto perpetuo, il centro del nostro Essere (da cui sorge l’intuizione intellettiva connessa al Tutto) non può originarsi dalla sua circonferenza (dimensione della mente empirica e analitica nel divenire) ma da un punto focale fisso, costante ed equidistante, all’interno di essa. Il piano dell'Intuizione parla con voce melodiosa che proviene da un'armonia perfetta, ‘rotonda’. Essa può essere udita solo nel silenzio attivo che è sospensione dalle cose del mondo ed abbandono al flusso di tutti gli eventi, e procede aldilà dei piani razionali ed emozionali. E' libera e non soggetta ad alcun condizionamento ideologico, culturale o pedagogico. Nei bambini la si osserva in maniera distinta e naturale, quale aspetto dominante dell'intelligenza prelogica, ossia che precede il pensiero logico. Quella stessa logica che, specie in campo scientifico, verifica e certifica in una fase successiva la veridicità dell'intuizione. Forse, nell'eccesso conclamato delle informazioni preconfezionate e divulgate massivamente, dovremmo disapprendere il precostituito per consentire al cervello di rigenerarsi ed aprirsi al fiore della sapienza, cercando quindi di ricordare un qualcosa dentro di noi. Perché ogni uomo contiene in sé l'enciclopedia ed il codice sacro di tutta l'umanità. Il sapere fondamentale dell’uomo non si apprende solo nelle biblioteche, nelle scuole o accademie. La cultura, la nozione, riveste un’importanza certo rilevante sia nel percorso pedagogico e didattico che ai fini del conseguimento di una determinata specializzazione. Un medico deve conoscere la medicina così come un avvocato la giurisprudenza. Ma la conoscenza della cultura umana, estremamente sottile e raffinata, richiede altri percorsi.
Immaginiamo allora che il sapere accademico sia una pista che agevola il decollo, ma per levarsi in volo e salire in alto non basta, è necessario disporre di altri strumenti. Esiste anche la dotta ignoranza o, se preferiamo, la cultura fine a se stessa. Vi sono persone che, senza avere cognizioni precise in un campo specifico e senza aver intrapreso particolari percorsi esperienziali, giungono a conclusioni pertinenti ed appropriate che spessissimo vengono confermate dalla realtà delle cose. Potremmo considerare questo fenomeno un atto di giustizia della natura che consente a tutti di evolversi e comprendere attraverso quell’intuizione che si espande ovunque, dal campo della matematica a quello dell’arte sino alla filosofia. Si ritiene che le grandi scoperte scientifiche, ad esempio, derivino non tanto da calcoli propedeutici e sillogismi ma da semplici intuizioni nell’attimo inatteso della vita, quando il pensiero è lontanissimo dall’argomentazione. Un salto improvviso della mente superiore che travalica la ratio. Ci troviamo in un istante da una sponda ad un'altra senza sapere il perché. Ma sentiamo che, in quel preciso momento, non può essere che così, quella è la soluzione.



L'angolo di cielo



Nei momenti estremi della vita, quando la sofferenza domina il corpo e la mente, improvvisamente tutto ritorna al presente. Il disagio psico-fisico ci impone di essere nel qui ed ora perché il nostro organismo – nella sua infinita intelligenza – concepisce ogni funzione o facoltà vitale solamente nell'attimo presente, pur conservando una memoria pregressa, diremmo 'storica' inscritta nel patrimonio cellulare. In qualche modo è una forma di meditazione o forse di sospensione della realtà. Tutto diventa relativo, secondario, eventuale. Il dolore assume una centralità che non ammette prolungate distrazioni.
Da una stanza solitaria in un letto d'ospedale, si cerca la luce o un angolo di Cielo da poter guardare mentre i camici bianchi corrono frettolosi e distratti da un reparto all'altro. Ogni cosa piccola diventa importante, ogni gesto minimo diviene fondamentale. Iniziamo a guardare la natura con occhi diversi. Dal buio della sofferenza emergono pensieri obliqui che mai sarebbero affiorati alla luce della frenesia, della corsa forsennata, della distrazione di massa. Perché pensiamo che la salute psicofisica sia un fatto di per sé evidente e scontato. Non ci rendiamo conto che una è la salute e molte sono le malattie e tutto può cambiare in un secondo, nel momento in cui qualcosa capita. Ne fossimo pienamente consapevoli, ogni istante assumerebbe un sapore diverso. Il sole ci apparirebbe nuovo ogni giorno, e scopriremmo il piacere ultrasensibile della gioia senza motivo, della serenità dettata dalla consapevolezza di esistere.

La Gioconda di Leonardo è lo specchio più fedele di questa condizione. Monna Lisa è il lieve e composto sorriso della consapevolezza, del compiacimento dell'esistenza nel progetto divino attraverso un' espressione né maschile né femminile che potrebbe rappresentare lo stesso Leonardo che ritorna e, in generale, l'umanità intera. Questo è il suo significato ultimo. Il resto sono solo belle, fantastiche leggende.

Quando ci accade qualcosa di tragico, quel pezzo di cielo azzurrissimo che si intravede da una finestra irraggiungibile appare prezioso, indispensabile, altissimo. Se quel letto fosse dentro l'abbazia di San Galgano – il tempio senza volta e senza tetto – il Cielo si aprirebbe immenso ed incommensurabile sopra di noi... e tutto non avrebbe limite. Il Cielo... dentro il tempio e fuori da quel tempo che è l'immagine mobile dell'eternità...


Amor sacro e amor profano



E' quanto meno ridicolo il concetto di Amore che spesso coltiviamo nel nostro intimo animo, confondendo le ragioni del corpo con quelle del cuore e della mente. La parola Amore è la più usata e abusata nella perfetta inconsapevolezza del termine. Pensiamo di conoscerne il senso e, sulla base di questa presunzione, impostiamo la nostra vita coinvolgendo gli altri nelle nostre convinzioni pseudo sentimentali. Sappiamo abilmente mascherare le esigenze dell'Ego di desiderare e possedere e, legandoci ad un'immagine puramente esteriore, definiamo questo caos istintuale con una parola sacra quale Amore. Ma sarebbe meglio chiamarlo Eros, pulsione della specie di appartenenza. Sovente la mancata consapevolezza ci conduce ad identificare nella compagna o compagno la figura materna o paterna, con la conseguenza di vivere relazioni asimmetriche e disastrose caratterizzate da quella reciproca dipendenza che è di per sé la negazione della libertà che l'amore pretende. A volte è il senso di vuoto, la paura del confronto con se stessi a spingerci nello smarrimento interiore che confonde. In realtà, l'Amore è un’Energia cosmica che realizza il progetto umano ed il mezzo per comprendere il mistero ultimo di ogni cosa. Un tempo gli stilnovisti lo definivano il mezzo di elevazione a Dio. La grande arte ha saputo, nei secoli, idealizzarlo e rappresentarlo in una dimensione suprema ed incorruttibile attraverso la bellezza e la gioventù dei corpi, simbolicamente riflesso della potenza divina. Esso non è riconducibile alla realtà di un unico piano dell'Essere (quello fisico o emozionale ad esempio), ma è frutto dell'interazione dei diversi strati dell’Essere, a partire da quelli sensibili fino alla dimensione spirituale. Noi siamo nell'Amore dal momento in cui veniamo al mondo, lo abbiamo dentro e, in un certo senso, tutto il nostro impegno dovrebbe essere volto a farlo rifiorire ogni giorno attraverso diverse vie. La metafora delle trasformazioni alchemiche, in questo senso, è eloquente. La contemplazione del Bello, l'educazione alla vita interiore ed esteriore, la conoscenza della dinamica di relazione, il rispetto, la coscienza e l’attenzione per ogni forma vivente. Sono tante le strade che possono condurre alla meta. Oltre la paura si espande l'Amore vero dell'infinitamente piccolo e dell'infinitamente grande, nella consapevolezza che ogni Cosa ha una sua ragione di esistere. Impedire alla nostra essenza di compenetrare questa Energia meravigliosa, significa intraprendere un cammino di dolore senza conforto. L'Amore sacro è sapienza che non si apprende nei libri di teologia o filosofia, tutt’altro. Esso è frutto di una sottile cultura umana che ogni uomo deve ricercare in sé, nell'osservazione dell'esperienza, aprendosi semplicemente alla vita senza illusioni e mistificazioni.

La differenza tra l'amor sacro e l'amor profano è la stessa che passa tra il sole che vive di luce propria e la luna che riceve luce riflessa, non a caso il primo accostabile alla coscienza nell'essere, l'altro alla mente nel pensare. Il vero Sole non conosce né l'alba né il tramonto...

Il piano dell'Amore corrisponde a quello della vera Intelligenza, non dell'esercizio intellettualistico. Entrambi possiedono tutto senza possedere nulla. Nella vita quotidiana ci avviciniamo vagamente a questa dimensione suprema, vertice dell’Amore, anticamente definita Agape, quando siamo disposti a dare con gioia senza chiedere, in maniera disinteressata, senza pensiero condizionante, e concepiamo tutte le cose in un ordine necessario. Pensiamo all’amor claustrale, l’Amor dei intellectualis, vissuto e consumato nel chiuso dei conventi, dove la totale devozione al divino supera qualsiasi tentazione mondana. O il sentimento profondo che esprimiamo verso coloro che non sono più nella vita terrena ma che facciamo vivere idealmente nel Cuore. Un dare senza chiedere nulla, un coltivare nel segreto del silenzio un sentimento incommensurabile e splendente come un immenso sole. Forse la paura vede il suo contrario in tutte queste dimensioni che, in ultima analisi, sono lo specchio di un coraggio interiore di indagare il proprio Essere e l’eterno mistero della vita cosciente che ci riporta al Senso del Tutto.

Possedere tutto senza voler possedere nulla... è un concetto che ci può apparire anomalo se non incomprensibile in un’epoca di competitività come la nostra. Coltiviamo l’illusione che sia l’accumulo delle cose a garantirci una sicurezza interiore e la gioia di vivere. Pensiamo con convinzione che la gioia sia un obiettivo da conquistare con grande fatica e con grandi mezzi materiali, e per questo siamo diventati aggressivi e competitivi. Vogliamo il potere delle cose e lo vogliamo subito. Ci siamo convinti che la festa sia un tripudio di colori, luci e genti che si muovono vorticosamente. Non ci siamo accorti, purtroppo, che questi modelli inconsci sono stati il combustibile ideale che ha alimentato il senso di solitudine, smarrimento, frustrazione. Vi sono persone che odiano il silenzio della natura, la contemplazione, la lettura della poesia. In qualche modo sono condannate a riempire tutti gli spazi disponibili con la paura nel cuore di non esserci, di non esistere. Solo il movimento incessante li riporta alla concretezza delle cose che diventano così feticci da esibire, modelli cui consegnare il proprio tempo e la propria energia vitale. Ma le cose terrene, per belle che siano, possono garantirci solamente attimi di una felicità effimera che brucia in fretta e lascia il vuoto nel cuore. La gioia interiore, quella condizione impalpabile che definiamo felicità, ha ben altre radici e non appartiene al regno delle cose visibili ma alle infinite praterie piene di luce che si aprono allo sguardo del sentire e compenetrare consapevolmente. Certo non basta pensare o intendere (tendere verso) un concetto, è necessario lo slancio del comprendere (prendere con, abbracciare) e soprattutto identificarsi nel principio riconosciuto. Teoria e prassi devono coincidere nella complementarietà.

Vivere per Lei

L'intuizione della Bellezza nel piano ideale è una delle vie del Fuoco sacro che, attraverso il processo della contemplazione sensibile, eleva l'Anima alle supreme vette della conoscenza. Ma, affinché questo avvenga, il nostro Cuore deve purificarsi dalle forze che operano per invertire la direzione del Bene. Un tempo fu detto: Demon est Deus inversus, per evidenziare l'inganno e la divisione. Quest’ultimo principio che definiamo negativo non contiene in sé il Male assoluto, ma è solamente l'ombra della Luce che occulta lo splendore del Vero e quindi del Bello.
L'Estetica (derivazione greca dal verbo Aisthanomai=sentire) svela l’armonia delle molteplici espressioni percepibili dalle nostre facoltà vitali e delinea la meraviglia del Principio che si manifesta nella natura, nell’arte e nelle scienze. Molti hanno dedicato la propria vita a Lei, maestra di vita e dea luminosa che apre le porte del Cuore definendo il Senso di ogni fenomeno nell’accordo con il Tutto. Per lei molti grandi uomini hanno sofferto la fame, il freddo ed hanno patito l’umiliazione di non essere compresi. Ma di questa scelta non si sono mai pentiti...
Il suo volto antico non conosce tempo e profuma di una perenne gioventù perché è illuminato dalla Luce di quell’Amore che lo preserva dalla corruzione e dall’ombra mortale del vizio.


 

Bologna, Palazzo Fava

8 febbraio – 25 maggio 2014

 

La fanciulla rappresentata di tre quarti in questa piccola tela (cm 44,5x39) dipinta da Jan Vermeer intorno al 1665, certo non poteva supporre di assumere le connotazioni se non del mito, quanto meno dell'immagine-icona di una sensualità senza tempo, intensa ma involontaria. Infatti, quell'improvvisa torsione che la fa voltare verso di noi in un attimo assoluto, impedisce la messa in posa, l'eventuale pensiero di una seduzione consapevole nell'aurora sorgiva della vita amorosa. Non conosciamo la sua identità precisa, ma abbiamo ampia facoltà di immaginare tutto. Il film di Peter Webber del 2003 a lei dedicato (con il volto paradisiaco ed opalescente di Scarlett Johansson), le attribuisce un nome, Griet, la servetta di casa Vermeer, e la vuole protagonista di una passione dolcissima, quasi ideale con il pittore taciturno e solitario perduto nelle sue pitture. Più verosimilmente, aldilà di questa favolica ricostruzione cortese, è probabile che il maestro abbia voluto restituirci il sentimento di una fugace primavera della vita che porta in sé i prelibati doni dell'amore che oscilla tra sacralità ideale e passione terrena, ch'egli aveva individuato in una ragazza del popolino. E gli elementi ci sono tutti. Dal turbante azzurro che esalta quel viso perfetto allo sguardo vagamente languido, ma privo di ogni malizia. Da quella mezza parola lieve, appena sussurrata dalla bocca, all'ombra che evidenzia la beltà rara e preziosa di una perla non sua. E proprio quella perla, resa con due rapidi colpi di pennello, conferisce a Griet quella Bellezza pura e soave che la natura ha già provveduto generosamente a donare, in cui si specchia la Virtù più innalzata. Vermeer ci regala l'immagine paradigmatica di un sentimento di profondissima nostalgia, forse legato alle Cose che potevano essere e non sono state oppure, più semplicemente, a quell'attimo consacrato all'infinito dove tutto accade e nulla si può fermare, se non nel prodigio dell'arte immortale. In questo piccolo capolavoro che profuma di gioventù, Vermeer compie il miracolo. Tutto ci pare fin troppo realistico. Osserviamo l'opera per interminabili istanti, senza distogliere lo sguardo. Temiamo che, da un momento all'altro, la Griet possa girarsi di nuovo in direzione opposta facendoci precipitare, definitivamente, nel grigiore di una quotidianità inutile, senza scopo, priva di sguardi ammalianti e dei colori di quell'indefinibile primavera piena di vita.

 

 

 

La ragazza con l'orecchino di perla

Il mito della Golden Age da Vermeer a Rembrandt

 

Il problema dell'unità linguistica

 

Abstract del saggio 'Lo spirito del tempo che ritorna'

La provincia italiana e l'opera poetica in lingua friulana di Terzo Renzo Cecotti

 

La grande civiltà italiana è unita culturalmente già dal tempo dei Romani che diffondono l'idioma latino e greco non solo nella penisola ma in tutto il bacino del Mediterraneo, dalle coste dell'Africa settentrionale alla Spagna, dall'Inghilterra fino all'odierna Romania e oltre. La celebre Carta di Capua o Placito Cassinese (datata 960) è un atto notarile che testimonia ufficialmente la nascita del volgare italiano, ovvero un idioma oramai svincolato dalla rigidità del latino che si fonde con le numerose rozze parlate ed evoluzioni fonetiche della penisola. Il volgare umbro delle laudi di San Francesco unitamente al felice dialogo tra Dante (alla perenne ricerca di una koinè linguistica) gli stilnovisti toscani ed i fondamentali poeti di scuola siciliana, riuniti dopo il 1230 da Federico II di Svevia nella sua Magna Curia, determinano le fondamenta della lingua italiana così come oggi è strutturata, arricchita da elementi esterni, quali barbarismi, gallicismi oppure contributi di derivazione normanna, longobarda e araba. E, accanto a Dante, le 'canzoni' del Petrarca e le prose del Boccaccio nel 'Decamerone' costituiranno apporti complementari di assoluto rilievo. L'unità linguistica (è sempre la lingua il fattore primo che unisce ed identifica culturalmente ed antropologicamente un popolo) prelude dunque quella politica che avrà luogo nei secoli a venire. In un tempo successivo, la stessa cosa avviene con le Arti delle principali scuole della penisola (romana, toscana, lombardo-veneta ed urbinate) che, nell'ambito di uno strettissimo rapporto collettivo di scambi riuniti in uno spirito comune, daranno vita ai capolavori della Rinascenza italiana. Le tante realtà dell'Italia, dunque, ed il suo variegato mosaico di umori, talenti e culture così diverse ma unite da un sentimento forte. La vita delle grandi città e, soprattutto, quell'inesauribile fonte culturale della grande provincia italiana che è divenuta, in virtù del ragionamento precedente, provincia di tutto il mondo. Abbiamo citato la geografia linguistica e le Arti ma potremmo citare, in tempi moderni, il cinema. E un esempio su tutti è la pellicola 'Amarcord' (dal vernacolo=io mi ricordo), il capolavoro di Federico Fellini girato in dialetto romagnolo e premiato, per paradosso, dagli americani con l'Oscar. Pensiamo alla geniale sceneggiatura del poeta dialettale Tonino Guerra ed al miracolo compiuto di concerto con il grande regista riminese. Ebbene, in quel film apparentemente riferito ad una realtà locale, si riconoscono i tratti ed i valori universali di un'umanità intera con le sue contraddizioni, gli umori e le passioni sopite. Ed il dialetto è funzionale all'interpretazione significativa e spontanea dell'opera. Non lo si potrebbe certo immaginare sceneggiato in lingua italiana. Così come 'L'albero degli zoccoli' di Ermanno Olmi, altro capolavoro del cinema, girato in dialetto bergamasco, che ricevette la Palma d'Oro a Cannes. Ecco il miracolo, ecco la cultura provinciale che il mondo ci riconosce e condivide.

 

Il poeta ed attore teatrale Terzo Renzo Cecotti (Fauglis di Gonars, Udine, 1941) è il riferimento di una comunità che identifica nella sua figura essenziale un porto sicuro ed il custode di una memoria storica, culturale ed antropologica in cui si rispecchia il Friuli intero, quello straordinario microcosmo ricco di tradizioni, costumi e sentimenti puri in cui Ippolito Nievo – che proprio in terra friulana, a Colloredo di Montalbano, scrisse le sue celebri 'Confessioni' – vi trovava tutti i colori dell'universo. Cecotti - ad oggi il più rappresentativo poeta vivente di lingua friulana e maestro della ricercata musicalità del verso (vera essenza della poesia, come sosteneva Carmelo Bene) - recupera il valore del suo idioma di sempre, il friulano, che non è dialetto, non è vernacolo di uso spicciolo, ma lingua minoritaria storica a pieno titolo, tutelata e riconosciuta dallo stato italiano con tanto di legge, la n. 482 del 1999. Un attestato ufficiale d'identità e dignità di lingua che solamente friulano e sardo, ad oggi, possono vantare fra le realtà regionali. A differenza delle altre parlate (quali ad esempio il veneto, napoletano, siciliano e altre) che, pur avendo potenzialmente i requisiti – riconosciuti per altro anche dall'UNESCO – ad oggi non godono di una tutela se non nelle rispettive regioni di appartenenza. La lingua friulana o marilenghe va ben oltre la parlata dialettale, presenta una propria autonomia strutturale organizzata (pur nella famiglia delle lingue neolatine, nella fattispecie retoromanze o ladine) e trova il suo antefatto storico nella dominazione romana di Aquileia del 181 a. C. che assoggettò la cultura autoctona, forse di derivazione celtica, dei Carni. Dante individuò poi, verso il 1300, le irrituali connotazioni linguistiche, al punto di riportare la locuzione 'Ces fas-tu?' (=cosa fai tu?) nel suo trattato 'De Vulgari Eloquentia', quale curioso esempio di parlata regionale neolatina caratterizzata – a suo dire – da 'laceranti accenti'. Un indizio questo che ci fa ipotizzare una certa compiutezza sia fonetica che sintattica, simile a quella attuale, della lingua friulana da almeno 800 anni. Cecotti dunque scrive in quel friulano che vide in Pier Paolo Pasolini, bolognese di nascita ma di madre originaria di Casarsa della Delizia, il suo cantore più elevato, al punto da fondare in quel di Versuta, nel lontano 1945, l'Academiuta di lenga furlana, piccolo ma importante cenacolo di poeti in erba che possiamo considerare un primo laboratorio poetico a carattere sperimentale del friulano. Anche qui, il Friuli, l'Italia ed il mondo intero hanno un debito di riconoscenza verso Pasolini non solo per l'opera poetica e cinematografica internazionale (davvero ai massimi livelli, portò persino Maria Callas a Grado per le riprese di 'Medea') ma soprattutto per quella sua straordinaria intuizione che considerava il mondo contadino un patrimonio fondante della nostra cultura e civiltà. Non a caso, l'etimo di 'cultura' (dal latino 'colere'=coltivare) è il medesimo del più umile termine 'coltura'. Si coltiva l'anima come un contadino coltiva un campo affinché dia i frutti sperati, dicevano i filosofi sofisti. In questo senso, un assoluto valore documentativo assume un film del 1963, 'Gli ultimi', tratto da un soggetto di David Maria Turoldo (pregevole la regia dell'indimenticabile Vito Pandolfi e l'interpretazione di Vera Pescarolo, unica attrice professionista), che presenta la vita contadina friulana di stenti e sacrifici fra le due guerre, filtrata dagli occhi malinconici del piccolo ma attento Checo. 'Schietta ed alta poesia' la definirà Ungaretti in un celebre commento critico. Erano i tempi di una vita povera ma, nello stesso tempo, ricca di valori e tradizioni che ancora sopravvivono nell'impegno costante e nell'opera in versi di Renzo Cecotti.

 

 

 

 

 

Il capolavoro restaurato

Jacopo da Pontormo

La 'Visitazione'  (1528)

Carmignano – Pieve SS. Michele e Francesco

 

Questo capolavoro straordinario del Pontormo, forse del 1528, ripresentato in occasione della grande mostra del 2014 in Palazzo Strozzi a Firenze, è stato riportato all'antico splendore grazie al curatissimo intervento di restauro di Daniele Rossi, che ha rimosso la fastidiosa patina ambrata che ne alterava brillantezza e volumi. La Visitazione ritorna con il carattere vivace e inconfondibile di una dolcezza luminosa così come l'aveva pensata il Pontormo, maestro solitario e spregiudicato sia nell'esistenza quotidiana, distante dai rapporti sociali, che nella definizione di uno stile pittorico assolutamente personale. Nella composizione visionaria ed irrituale vengono smontati i canoni classici e solenni delle cromie, pur con vaghi riferimenti al Michelangelo del Tondo Doni e della Sistina, anche quest'ultima già riportata ai bagliori originari. Pontormo concepisce ricche tonalità cromatiche ed atmosfere tutte sue. Vuol essere affermativo e creare una scena corale pregna di autentica gioia del Cuore, e lo fa senza risparmio con colori 'sciropposi' unici ed improbabili, quasi astratti. Gli aranciati, le tinte rosa salmone, i verdi petrolio e poi smeraldo, definiscono una scala cromatica senza precedenti nell'epoca del Manierismo che sembra anticipare il gusto Pop del novecento. Le figure femminili sono libere, quasi sospese e fluttuanti in quello che sembra un sogno a colori cristallizzato nell'incommensurabile momento di un incontro sacro. Le cugine Maria ed Elisabetta, entrambe gestanti, si ritrovano nel tardo pomeriggio di primavera che regala, col cielo terso, una calda luce crepuscolare. E' l'attimo commovente in cui Elisabetta pronunzia la frase 'Benedetta tu fra le donne' nel salutare con affetto l'adorata cugina. Ma, aldilà della naturale venerazione (e soggezione) che suscitano sia la scena che le protagoniste, se leggiamo l'opera come un 'testo familiare' (così come insegnava Roberto Longhi), ci accorgiamo ch'essa muove in noi antichi ricordi e sentimenti sopiti che intimamente riconosciamo. Emergono allora nostalgie di volti, luoghi fiabeschi e memorie che evidenziano l'unicità preziosa di tanti incontri, forse irripetibili, che ognuno di noi ha vissuto e poi custodito nel segreto del proprio animo. Le due donne si guardano nel silenzio irreale spezzato solo da un venticello rispettoso che gonfia le vesti e pone in risalto lo stato di Grazia delle Sante, mentre le compagne rimangono attònite nella comprensione, in quest'attimo metafisico, del significato ultimo della sacra Visita. L'abbraccio è delicato e festoso, quasi un passo di danza portato dal cielo in una umile cittadina toscana, i cui edifici s'intravedono nello sfondo più ombroso. Fra qualche mese nasceranno prima Giovanni Battista poi Gesù. Qui inizia la Luce del Mondo.   

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Leonardo da Vinci

'La Vergine delle rocce'  (1483)

Parigi, Museo del Louvre

 

La Confraternita dell'Immacolata, prestigiosa istituzione milanese, commissiona una pala sul tema della Natività ad un giovane Leonardo appena giunto in Lombardia da Firenze. E, come consuetudine del maestro, il tema viene liberamente interpretato secondo enigmatiche simbologie e allusioni tipiche della sua personalità di infaticabile ricercatore. In un ambiente quasi spettrale, umido e roccioso, ricco di piante umbratili – che Leonardo raffigura da attento botanico con dovizia di particolari – con spuntoni calcarei simili ad una inquietante dentatura, si svolge una singolare 'conversazione' silenziosa tra noi, la Vergine, un Angelo, il Bambino e San Giovannino. Maria con una mano cinge il piccolo Giovanni mentre l'altra è protesa con un'ardita prospettiva verso il Figliolo in benedizione che, stranamente, non le è accanto. Ma, l'ulteriore stranezza è determinata dalla figura dell'elegantissimo Angelo che guarda noi con espressione ambigua, mentre indica non il Bambino ma San Giovannino inginocchiato in un piano prospettico più elevato. Che cosa ci vuol comunicare? Perché la sua attenzione non è rivolta a quel Bambino che è la vera Luce del Mondo? Difficile dare risposte a questa anomala conversazione che pare discordante rispetto ai canoni tradizionali di ordine e solennità espressiva. Si potrebbe azzardare l'ipotesi dell'Angelo quale presenza demoniaca fuorviante contrapposta al Divino manifesto, e proprio l'ambiente semibuio confermerebbe questa idea, unitamente alla veste rosseggiante simile ad un'improvvisa fiammata. In fin dei conti chi era Lucifero se non l'Angelo più bello che, per aver sfidato lo sguardo di Dio, fu cacciato dal Paradiso? Ipotesi, certo. Sta di fatto che Leonardo, qualche anno dopo, rifece un'altra versione più 'composta' della scena – ora alla National di Londra – in cui proprio l'Angelo risulta meno allusivo e più ordinato sia nella postura che nell'espressione candida del volto. Forse quest'opera fu giudicata eretica e non accettata, non lo sappiamo con precisione. Ma, aldilà di queste disquisizioni esoteriche, la mano di Leonardo rimane inequivocabile e si desume dai suoi celebri sfumati, dall'innovazione della prospettiva aerea e da quella curvilinea dolcezza delle linee anatomiche che ne costituisce lo stilema essenziale.    

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L'ipotesi attributiva

Bottega del Verrocchio oppure Leonardo da Vinci?

'Angelo nunziante'  [verso il 1480]

Pieve San Gennaro - Capannori (Lucca)

 

 

Quest'angelo in terracotta policroma dalle fattezze dolcissime, colto nell'attimo del felice annuncio, è da tempo oggetto di dibattito in merito alla sua attribuzione. Per molti anni considerato opera di bottega del Verrocchio (secondo la valutazione del 1958 di Carlo Ludovico Ragghianti), nel 1998 Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti del maestro di Vinci, propone l'ipotesi attributiva a Leonardo sulla base di elementi stilistici eloquenti. In ogni caso, sappiamo con certezza che Leonardo conosceva al suo tempo sia la località che la Pieve (fondata da una comunità di napoletani nel VI secolo), e non manca di citarla in una sua mappa ora conservata presso la collezione Windsor: uno studio del territorio funzionale ai progetti di canalizzazione e contenimento delle acque dell'Arno, argomento che tanto lo appassionava. Ma quali sono gli stilemi tipicamente leonardiani che possiamo individuare nella terracotta? Anzitutto la postura dell'angelo con la particolare torsione del corpo che suggerisce un movimento calibrato in una precisa direzione. Una plasticità elegante e ricercata che ritroviamo in diversi disegni di studio del maestro, sia nella già citata Windsor che agli Uffizi, dove le braccia sollevano con grazia le vesti accompagnando con sinuosità il corpo intero. Eppoi l'espressione del volto, né maschile e né femminile, che ricorda i suoi celebri ed ambigui ritratti, con la capigliatura mossa e riccioluta che fa da corollario all'ovale perfetto del volto. Forse un autoritratto? Naturalmente non lo sappiamo. Tutte le forme curvilinee presentano una ricercatezza dell'insieme che sembra il preludio della grande stagione pittorica che verrà di lì a poco. La terracotta potrebbe essere, dunque, un esercizio di stile di Leonardo propedeutico ai capolavori successivi, magari realizzato durante una sosta nel borgo. O ancora una committenza locale non particolarmente prestigiosa e quindi non trascritta in alcun documento o registro ufficiale. Le cronache riportano un danneggiamento subito dalla statua nel 1773 che vide la parte superiore spezzata in diversi frammenti in seguito prontamente ricomposti alla meglio. Altre notizie non vi sono. Rimangono quindi molti indizi ed ipotesi, ma un fatto è certo: Leonardo è transitato da queste parti e l'opera potrebbe essere una delle rarissime statue da lui eseguite, accostabile al cavallo in bronzo di Budapest e un San Girolamo (ora conservato al Victoria and Albert Museum), anch'essi oggetto di numerosi dibattiti. Un intenso e rigoroso restauro del 2019, eseguito dall'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ha recuperato alcuni fondamentali passaggi cromatici del capolavoro. 

Il concetto di 'visione'

Il concetto di visione può assumere diversi significati ed evocare situazioni immaginative di varia natura. Una visione può legarsi ad un fatto reale che, effettivamente, il nostro sguardo coglie nell'attimo imprevisto della manifestazione, oppure ad una percezione soggettiva – spesso illusoria – che agisce a livello psichico, figurandosi in ipotetica immagine interiore. Nella fattispecie, quest'ultima condizione viene vissuta proprio dall'artista che rappresenta una dimensione tutta sua per libera scelta, spesso svincolata da una realtà che non riesce ad amare o in cui non si riconosce. Le visioni, quali proiezioni psichiche inconsce o puramente fantastiche, possono costituire una ricchezza inesauribile, un magazzino di idee cui attingere nei momenti particolari dell'azione creativa. L'arte autentica, per essere tale, non deve rappresentare il già visto ma l'inedito, lo stile personale, la diversità dello sguardo affilato. E' questo che, in definitiva, suscita in noi il vivo interesse o l'ammirazione incondizionata di quel mondo 'altro' che pare fuori dal mondo convenzionale. Perché, come suggeriva Nietzsche nel prospettivismo filosofico, non esistono fatti ma solo interpretazioni.

 

(a lato: Dalì - 'La persistenza della memoria', 1931)

 

 

'Sinestesia' : il Tutto e le sue parti

La 'Sinestesia' è un fenomeno sensoriale ben noto negli ambienti vicini ad una certa psicologia di ricerca. L'etimo greco ci riconduce all'idea di una percezione simultanea dei sensi, nella considerazione che nessun apparato – fisico o 'sottile' – del nostro organismo sia disgiunto dagli altri. Kandinsky, nel saggio 'Lo spirituale nell'arte' – scritto nei primi anni del '900 – affronta e risolve in maniera esaustiva tale concetto, associando ad un colore la percezione uditiva di un suono e, persino, una 'temperatura' che può attrarre o respingere l'osservatore, determinando così stati d'animo diversi. Una tesi che trova la corrispondenza letteraria nella drammaticità dei versi di Baudelaire, il quale – nella raccolta 'I fiori del male' – evoca attraverso le parole un cosmorama di sensazioni controverse ed indescrivibili (sinestesia linguistica). I sensi sarebbero dunque collegati fra loro in un processo di totale sinergia attribuibile ad un sistema olistico (dal greco olos = tutto) dove l'insieme è sempre maggiore della semplice somma delle sue parti (Aristotele). Se ogni elemento all'interno di un sistema è collegato agli altri – come la Natura stessa dimostra – lo siamo, per logica di verità, anche noi nelle manifestazioni espressive del Cuore e della Mente. Nel corso della storia, molti movimenti di idee si sono espressi per effetto di una cooperazione implicita, una sorta di Coscienza collettiva che improvvisamente sviluppa principi di teoria e conseguente costruzione ben definiti. Basti pensare al Rinascimento ed alla fioritura delle scuole pittoriche o alla nascita della lingua italiana che trova coesione unitaria nella concordanza di idiomi e fonemi differenti. Nell'immensa varietà dei linguaggi contemporanei, tuttavia, concetti comuni possono esprimersi con modalità apparentemente antitetiche nelle forme ma non nei contenuti. Il divino, ad esempio, può rivelarsi non solo nell'eloquenza della figurazione ma anche nella sintassi informale, nella sintesi astratta o nelle recondite scomposizioni scultoree che pare non abbiano nulla a che vedere col dato reale oggettivo immediatamente riconoscibile dallo sguardo. Alla luce di queste considerazioni, la 'Sinestesia' richiama, dunque, il sacro concetto dell'unione e non della divisione. Una rete umana che, nel medesimo spazio temporale, esprime apparenti diversità e misteriose convergenze volte a realizzare la meraviglia della comunicazione interattiva e multidimensionale. Questa esposizione vuole suggerire, nei suoi intenti, la semplicità di questa riflessione. Tutto sommato, nessuno di noi è poi così distante dalle ragioni e dalla sensibilità dell'altro, poiché tutto ciò che proviene dall'uomo appartiene all'uomo stesso. E questo, è uno dei grandi insegnamenti che l'Arte ci tramanda da millenni.  

  

(a lato: opera di Tancredi Parmeggiani)

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Vita nascente ed evocazione della Morte

Bramantino : 'L'adorazione dei Magi' [1500]

Londra, National Gallery

 

Pittore singolare ed enigmatico Bartolomeo Suardi, detto Bramantino, già valente ed affermato architetto, attivo nel progetto del Mausoleo Trivulzio di Milano e, probabilmente, nella Fabbrica del celebre Duomo. Dopo l'esperienza rivoluzionaria dell'illustre - e più conosciuto - Bramante (da cui ne trae il fortunato diminutivo), in quest'opera realizza forse la sua più alta sintesi tra rigore prospettico, studio delle figure ed incidenza della luce nell'insieme. La figura centrale del Bambino - qui insolitamente non protagonista nell'espressività del volto e nell'anonima postura - è il sicuro riferimento dei personaggi che si avvicinano, primo fra tutti il Battista, rappresentato più adulto di Gesù, paludato in una veste aranciata e colto nell'azione di indicare la regia sacralità ai Magi che, imperturbabili, avanzano solennemente con deferenza, senza tradire particolari stati d'animo. Maria Vergine, distante ed introversa, e l'adombrato Giuseppe, appaiono fugacemente in un ruolo di secondo piano. Si caratterizza così l'algido distacco del Bramantino che pare voler rappresentare l'evento senza particolari emozioni, con sguardo da cronista relativamente coinvolto, più interessato al Mistero dell'attimo che al Sentimento. Ma, la nostra attenzione è catturata dagli anomali contenitori in primo piano, molto simili a delle urne aperte, presagio del martirio e indizio di morte, nel contesto di un'atmosfera già di per sé inquietante, dettata dall'irrituale ambientazione che ospita la scena, ovvero un edificio rinascimentale fatiscente dal tetto sfondato che pare uscito da un'improvvisa devastazione. Eppoi la luce gelida, quasi metallica, che definisce in misura impeccabile i contorni e le ombre di un incontro divino che non concede nulla all'esaltazione sentimentale. Tutto è pura narrazione mentale e richiamo filosofico nella contemplazione della Vita nascente e nell'evocazione della Morte, dimensioni antitetiche dell'esistenza che qui paiono conciliarsi in un unico momento di estrema riflessione. Una composizione immersa in un silenzio assoluto ed una compostezza scenica quasi da teatro di posa che ci interroga sulla Verità ultima della vita terrena nel contesto del dogma religioso. Bramantino, con un ardito accostamento di simboli contrapposti e personalissime invenzioni, entra a suo modo nel centro di un tormento interiore alla disperata ricerca di una risposta, fra disorientamento compositivo ed umana Ragione. Qui inizia e finisce il Mondo.                     

 


Il complesso bronzeo, unico al mondo per la trionfale composizione di epoca romana e la scelta dei materiali impiegati (ben 9 quintali di bronzo, rame, piombo e foglia d'oro), fu rinvenuto da un contadino in un campo nel 1946 nella frazione di Santa Lucia di Calamello, nel territorio di Cartoceto, appartenente al comune marchigiano di Pergola. Dopo diverse peripezie ed il maldestro tentativo di rivendere il Bene nel mercato clandestino di Roma, grazie all'interessamento di don Giovanni Vernarecci, già ispettore a Fossombrone, il capolavoro si pose sotto definitiva tutela dello Stato per l'opportuno restauro che fu eseguito a Firenze. Ben poco possiamo affermare con certezza storica per quanto concerne sia la datazione che l'identificazione dei personaggi. Nel tempo molte ipotesi più o meno plausibili o suggestive si sono susseguite, frutto di deduzioni non comprovabili proprio per assenza di documentazioni appropriate. I diversi interventi di restauro intercorsi nel '900 che hanno assemblato centinaia di frammenti sparsi, hanno ricostruito due statue del piccolo corteo, oltre ai cavalli, mentre delle altre rimangono solo alcune porzioni. L'attribuzione, diremmo 'intuitiva', forse più ammaliante, identifica il cavaliere collocato più in alto nell'imperatore Ottaviano Augusto con accanto Giulio Cesare che risulta oggi ben visibile in veste militare con la mano protesa in un gesto di pace. Le due donne agli estremi (una, forse la consorte dell'imperatore, Livia Drusilla, quasi perfettamente conservata, con il velo, in atteggiamento pensieroso, mentre dell'altra, forse Giulia Minore, sorella di Cesare, rimane solo la parte inferiore) coronano l'abbagliante spettacolo del potere. Completano la composizione due vivacissimi cavalli al trotto – caratterizzati da un'intensa espressività, adornati senza risparmio con decorazioni e simboli divini – che conferiscono all'insieme quella vitale dinamicità volta ad accentuare il trionfo dei personaggi. Non è da escludere la teoria che il complesso bronzeo si trovasse sopra l'attico del magnifico Arco di Augusto a Rimini, elemento questo che andrebbe ad avvalorare l'ipotesi della già citata attribuzione al primo imperatore romano. Rimane tuttavia condivisibile l'affermazione che, aldilà dell'identificazione delle figure, questo capolavoro unico e fondamentale (al pari dei greci Bronzi di Riace, in terra di Calabria, privi però delle preziose dorature) costituisce un'ulteriore testimonianza dello splendore del tempo di Roma, a sua volta specchio del grande Spirito creativo della nostra ineguagliabile arte classica. Ad oggi è in corso una contrapposizione tra il Museo Archeologico Nazionale delle Marche - con sede ad Ancona - che ne reclama la conservazione ed il Comune di Pergola che ne rivendica l'appartenenza territoriale.

 

 

 

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'I Bronzi dorati da Cartoceto di Pergola'  (50 a.C. - 30 d.C.)

Lo spettacolo del potere 

 

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Il recente restauro 

Benedetto e Santi Buglioni - Giovanni della Robbia

Il fregio dell'Ospedale del Ceppo di Pistoia [1525-29]

 

Il fregio, simbolo e riferimento artistico della città di Pistoia, è un'opera assoluta realizzata a più mani da Benedetto e Santi Buglioni con Giovanni della Robbia, quest'ultimo titolare della fortunata bottega familiare che caratterizzerà la celebre produzione di ceramiche invetriate di Toscana. E proprio questa tecnica esecutiva - ovvero la terracotta trattata con uno speciale smalto che ne garantisce brillantezza e resistenza nel tempo - fa risaltare questo capolavoro sopra le arcate del loggiato del duecentesco Ospedale del Ceppo, che per struttura architettonica richiama il più famoso Ospedale degli Innocenti di Firenze. Il committente, lo spedalingo (ovvero amministratore e 'responsabile sanitario') ed in seguito vescovo di Cortona, Leonardo Buonafede, volle probabilmente distinguere l'edificio da quello fiorentino evidenziando, attraverso un'eloquente ed intensa sequenza narrativa, le finalità e la missione cristiana dell'istituzione. Infatti, i pannelli policromi, disposti come una lunga pellicola cinematografica, raffigurano le Sette Opere di Misericordia e le Virtù, con il Buonafede stesso attore protagonista, riconoscibile dall'abito bianco con mantellina nera. Ma, oltre alla spettacolarità cromatica nel sapiente accostamento dei dominanti giallo, verde, azzurro, è l'estremo realismo delle posture e delle espressioni vissute dei personaggi a coinvolgerci ed a condurci dentro l'incessante sequenza delle scene. Davanti al Dolore non c'è tempo da perdere, e tutto deve svolgersi con paziente solerzia, rispettando le priorità. Ecco allora l'attivissimo vescovo prodigarsi a dirigere al meglio le operazioni, a suddividere i compiti, a portare parole ed azioni di sostegno e conforto ai carcerati, alle vedove, agli affamati, ad assistere gli infermi o benedire i morti. La sua azione misericordiosa è percepibile in un'intensità di gesti che non conosce eguali. Erano i tempi delle carestie, della peste, delle frequenti incursioni belliche, e l'opera di un ospizio di cura ed accoglienza si rivelava indispensabile. Dalla piazza prospiciente, guardando con partecipazione questo capolavoro, ci si accorge che quell'epopea di sofferenza è sospesa tra terra e cielo, in attesa di essere definitivamente consacrata dalla volontà divina. L'ultima lastra, del 1586, opera di Filippo Paladini, si differenzia nettamente dalle altre per l'assenza del trattamento a smalti, peculiarità della scuola robbiana. Nel 2015 il fregio è stato oggetto di un accurato restauro da parte dalla Soprintendenza alle Belle Arti di Firenze, che ha riportato ancor di più alla luce splendori e cromie originarie, ripulendolo dalle polveri atmosferiche, sanando fratture e residui materici di interventi precedenti. Qui la carità e l'umiltà si mostrano al Mondo per ricordarci le parole che Gesù ci ha lasciato prima di salire al Cielo: "Amatevi come io vi ho amato... ". 

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Il capolavoro nascosto

Giambattista Tiepolo

'L'educazione di Maria' [1732]

Venezia, Santa Maria della Fava

Vive una condizione di singolare isolamento questo dipinto spettacoloso e necessario di un Tiepolo già arrivato ad una fase avanzata della maturità stilistica. Infatti, la tela è ubicata all'interno di una Chiesa molto modesta (Santa Maria della Consolazione, detta la 'Fava'), quasi compressa da altre costruzioni, situata nei pressi di Rialto e, nella sua semplicità architettonica, non ha certo la pretesa di competere con i più prestigiosi edifici di culto della città lagunare. Eppure essa contiene un capolavoro che rappresenta uno dei momenti più elevati dell'iperbole artistica del pittore veneziano. La scena dell'educazione della Vergine propone la prodigiosa Bambina intenta in un gesto ieratico e sicuro verso un volume aperto, quasi fosse lei - in una situazione pedagogica invertita - l'autentica educatrice della madre Anna, qui visibilmente provata nel volto dallo scorrere del tempo. Maria è pervasa dalla pienezza di una Luce assoluta che le conferisce splendore,  portata direttamente dal Cielo da due gruppi di angeli che la assistono durante questo sacro apprendistato che sembra l'esposizione 'familiare' di una suprema argomentazione già ampiamente conosciuta per grazia divina. Dall'altro lato fa la sua comparsa la figura di Gioacchino con lo sguardo estatico rivolto verso l'alto, in una intensa contemplazione. Ma vi è tutto il Tiepolo in questa tela forse poco conosciuta ed appartata. La sua peculiarità stilistica, quella pittura liquida e delicata vagamente 'impressionista', che fa apparire le figure come bolle di sapone colorate che volteggiano nello spazio di un Silenzio soprannaturale. Eppoi i volti dall'espressività eloquente pur nella velocità esecutiva, quasi provvisoria, che rendono non meno incisivamente lo stato d'animo dei personaggi. Nella condizione di una Bellezza esplicitamente evocata sia nelle forme che nell'iconologia dei soggetti, spicca di certo la figura dell'angelo con le ali dispiegate, sospeso nella parte superiore in corrispondenza di Maria, poggiato su di un drappo giallo. Nella sua espressione irraggiungibile e trasognata, scopriamo il senso di una nostalgia penetrante che evoca la possibile felicità in un mondo 'altro' fuori dall'angosciante condizione della contemporaneità. Forse Tiepolo, nella narrazione di un episodio religioso, ha voluto suggerire l'idea di un sogno lontano oppure ha inteso proporre un momento di riflessione oltre la crudezza della realtà. Ma un fatto risulta di per sé incontrovertibile. Ovvero che la composizione ci regala attimi fuggenti di inspiegabile felicità - ancor di più esaltata dalla vivezza cromatica dei panneggi, dalla leggerezza dei volumi e da un'atmosfera paradisiaca - nel carattere di sicuro capolavoro in un angolo di Venezia, preservato nei secoli, così come lo vide Tiepolo.   

Le pitture iridescenti del Veronese [1555]

Venezia, chiesa di San Sebastiano 

E' una modestissima chiesa rinascimentale appartata, quasi nascosta, quella scelta dal Veronese per l'apoteosi della sua pittura, dove chiederà di riposare nell'eternità della gloria, accanto al pregevolissimo organo. Collegata da un piccolo ponte alla città lagunare, la chiesa si presenta dunque in quell'assoluta discrezione che, probabilmente, doveva corrispondere al carattere di un artista riservato quanto raffinato, nel complesso studio delle sue animatissime scene. La pittura invade ogni spazio disponibile di questo coloratissimo luogo sacro. Il Veronese realizza le composizioni senza risparmio, ad iniziare dal soffitto della navata centrale con i tre celebri teleri delle storie di Ester, santa e regina dei Persiani, ora riportati allo splendore cromatico grazie ad un sapiente restauro. Ed è proprio il velluto smeraldo scuro della veste della regina a spiccare nel vivacissimo momento dell'incoronazione. Qui, il maestro ci restituisce non solo lo splendore delle vesti e degli ori reali, ma ci rivela anche la straordinaria capacità di realizzare prospettive arditissime, al limite del razionale, in un vertiginoso gioco di sospensioni che non trova precedenti nella sua lunga e ricca iperbole artistica. Sono gli effetti spiazzanti e gli scorci tagliati i suoi veri interessi compositivi, dopo aver conquistato la dimensione del colore ed averne addirittura inventato uno, il 'verde veronese', nelle varie tonalità dallo smeraldo al giada scuro. E forse proprio nell'abito della regina c'è la sua firma. Ma il suo desiderio di far diventare questa piccola chiesa un tempio della pittura, non si ferma alla decorazione del soffitto, della pala d'altare, del presbiterio e delle portelle dell'organo. La meraviglia continua nella sacrestia adiacente, in cui ogni centimetro della parte superiore è dipinto con un gusto incomparabile, e dove trionfa un'altra incoronazione, quella della Vergine. In questo sacro edificio solitario, assai poco frequentato dai turisti, con alle spalle campi e campielli sempre deserti dove un tempo sorgeva un cimitero medievale e dove ora sembra finire il mondo, Veronese dimostra che la grandezza non si manifesta solamente nei grandi templi, con le grandi committenze, ma anche nella periferia della vita, con quell'umiltà che lo ha sempre contraddistinto in vita e che ancora gli sopravvive.

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Lorenzo Lotto nella città del sorriso

'La Crocifissione' [1534]

Monte San Giusto, chiesa di Santa Maria della Pietà

La monumentale pala del Lotto trionfa all'interno di una piccola chiesa marchigiana a navata unica che appare letteralmente invasa dall'ingombro di un capolavoro che Bernard Berenson definì 'ambiziosa, drammatica e vigorosa'. Una chiesetta nel cuore di Monte San Giusto, definita 'città del sorriso' per l'annuale festival degli attori-clown che propio qui si svolge. Un'opera che, tuttavia, non stupì di sincera ammirazione solo il grande critico. Anche Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, non solo ne confermò le virtù esecutive, ma la classificò come paradigma di quel 'teatro totale' che coinvolge (e sconvolge) lo spettatore, costringendolo a partecipare sollecitato dai tanti momenti scenici imprevisti, e da una vivacità cromatica stupefacente. Commissionata dal vescovo di Chiusi Niccolò Bonafede quale omaggio alla sua città natale, la pala rappresenta un tema consueto che il Lotto trasforma alla sua maniera, inserendo invenzioni, colori e movimenti. Anzitutto la luce del cielo che pare oscurarsi per effetto di nubi nere incombenti, forse un'eclissi di sole, come ipotizza lo stesso Paolucci, riferendosi alla narrazione evangelica. Vi è una frenetica concitazione nel cuore della composizione. Si odono i rumori metallici delle lance della soldataglia romana, si percepisce il movimento nervoso e contratto delle genti e dei cavalli. Qualcosa di inatteso sta per accadere fra lo sgomento generale, mentre si susseguono gesti scomposti e scene di autentico panico. Ma è nella parte inferiore che si manifestano in maniera più eloquente sentimenti e stati d'animo. Qui troviamo - nella parte sinistra - lo stesso vescovo committente quasi sospinto da un Angelo che irrompe verso il centro della scena, dominata dal tragico dolore di Maria che sviene ed è sorretta dalla pietà dei suoi compagni di sventura. Nella parte destra, in un piano inferiore rispetto ad un personaggio con veste azzurra che compie ampie gesta con le braccia, fa capolino la dolcissima figura di una ragazza impietrita dal dolore, con uno scialle ed un velo rosato, forse Maddalena. Ma è l'impressionante dinamismo a colpire più di ogni altro elemento iconologico. Ovvero quell'estremo tentativo di opporre alla staticità della morte il movimento della vita autentica che traspare nei volti e nelle singolari posture dei protagonisti, come solo il Lotto - pervaso da una commovente religiosità - poteva concepire.

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Le dimensioni del tempo

Se immaginiamo il tempo come una semplice linea retta che segue un percorso inesorabile, il Kronos dei Greci, ovvero il tempo quantitativo del divenire, forse siamo troppo limitati. Il tempo non è solo questo. E coltivare unicamente tale convinzione significa consegnarsi ad una vita infelice, senza speranza. Se Dio è Natura, quest'ultima vede un susseguirsi di giorni, notti, stagioni, accadimenti che si manifestano e poi ritornano. Tutto suggerisce un moto circolare, e lungo questa circonferenza vi sono tanti punti che sono attimi, momenti d'infinito, che sempre i Greci definivano Aion, il tempo infrazionabile dell'Essere (immagine mobile dell'eternità) senza divenire che comprende passato, presente e futuro. Vivere pienamente questa dimensione significa essere presenti e 'centrati' con se stessi aldilà di tutti gli orologi del mondo. Infatti la nostra Anima non distingue gli spazi temporali. Quand'essa si immerge nella contemplazione dell'evento, la distanza si polverizza. Tutto riaffiora vivido e attuale. Ripercorriamo immagini, paesaggi, volti, emozioni. Ma non basta. Il nostro compito non è solo vivere l'attimo ma anche scegliere il momento giusto per intervenire, compiere un'azione o prendere una decisione. Quello che, sempre il mondo classico, definiva Kairos, ovvero il tempo qualitativo, propizio dell'opportunità, dove tutto può compiersi. E' la scelta, insomma. Una dimensione evocata anche da Marco nel suo Vangelo, quando nel versetto 1,15 scrive 'Il tempo è compiuto'. Tutto scorre (Panta Rei) lungo un anello, Kirkos, il serpente (o il drago, a seconda delle tradizioni) che si morde la coda. Simbolo dell'eterno ritorno dell'uguale, dei corsi e ricorsi storici. Infatti, vi è realmente qualcosa che nella vita non ritorni in seguito? Basta analizzare i fatti accaduti nella storia. Anche in quella di ognuno di noi, a ben vedere, specie quando non si sono apprese correttamente le lezioni che la vita impone. Certo, viviamo compressi e soffocati in un mondo controverso. Ma l'Arte - infinitamente contemporanea nella sua essenza - può fare molto attraverso costruzioni di cuore e di pensiero che possono rappresentare potenti specchi rivelatori di spazi inediti dell'esistenza. E qui possiamo individuare un ulteriore aspetto: quello del reliquum tempus, ovvero il tempo che rimane fissato nella materia. Per sempre.

(elaborazione digitale di un dipinto di Mauro Milani)

Jacopo Pontormo  

'Il Trasporto di Cristo' [1528]

Firenze, Chiesa di Santa Felicita

Se dovessimo individuare le lontane origini della pittura moderna, non potremmo fare a meno di riferirci a questo capolavoro di Jacopo Carucci detto il Pontormo, artista raro e particolarissimo, svincolato da scuole e convenzioni stilistiche. Ipocondriaco e misantropo, così come si deduce dalle puntuali annotazioni del suo celebre diario di banale vita quotidiana, pare contraddire con la pittura vitale, coloratissima e comunicativa l'essenza stessa della sua persona, gretta ed asociale. Nel 'Trasporto di Cristo', opera del 1528, conservata nella Cappella Capponi della Chiesa di Santa Felicita in Firenze, Pontormo inventa una composizione piramidale senza precedenti, scompaginando totalmente le statiche esecuzioni dei suoi predecessori. Le figure delicate e leggere della parte superiore, definite nei contorni secondo la tradizione del disegno fiorentino, sono carezzate da un vento dolce e gradevole che muove appena le vesti nel rispetto di un dolore composto, sublimato dalla piena accettazione. La Vergine Madre, giovanissima e levigata, che saluta con un lieve gesto il Figlio con pacata rassegnazione, è colei che necessita di conforto poco prima del deliquio causato dal Dolore incommensurabile. Accanto alla sua figura, la schiera di giovani che le fanno da cornice rende il momento più sopportabile. C'è l'abbraccio dei suoi coetanei, la sincera vicinanza del calore umano, a confortarla. E, persino, un pacificante cielo color carta da zucchero con una bellissima nuvola illuminata dai bagliori di un crepuscolo aranciato. A fianco di Maria, in abito terra di Siena e berretto verde oliva, fa capolino la figura esile e discreta di Nicodemo, probabile autoritratto dell'artista, che pare voler comparire senza destare alcun motivo di attenzione, da testimone silenzioso dell'evento. Il Cristo non è il vero protagonista e forse non vorrebbe esserlo. Il suo corpo, risparmiato dalle crudeli evidenze del martirio, ora non è importante. Ciò che conta è la sua eredità dottrinale, il sacro Lume dell'Insegnamento divino che guiderà le genti nel tempo a venire. Due giovani dall'espressione attonita e il volto teso e pallidissimo sostengono con estrema dolcezza il corpo inerte. Uno di questi, riccioluto e muscoloso, in primissimo piano, quasi sbilanciato dalla posa innaturale, manifesta tutta la perplessità disorientante tipica di un adolescente che contiene a fatica la propria emotività. Ma è l'idea inattesa della Morte concepita dal Pontormo, a suscitare meraviglia. Qui non vi è buio senza speranza, non vi è fine ed assenza di Vita. E lo si evince dalla scelta dei colori astratti e caramellosi, quasi fiabeschi, certo non associabili ad alcuna celebrazione funebre, forse ispirati dalla Sistina di Michelangelo. Le tinte azzurrine, i rosa glicine, le tonalità arancio, tutti colori ricavati dalle sapienti mescolanze della tempera ad uovo stesa sulle assi di pioppo. In questa scena dalla luce fortissima, quasi cinematografica, non c'è spazio per l'ombra, per i segni della vecchiaia paurosa sui volti devastati dal dolore o per le nebbie inquietanti che preludono la notte. La Morte qui rinuncia ai caratteristici simboli tanto temuti dagli uomini. Per Pontormo essa è solo un momento di passaggio in un contesto dove tutto evoca la vita, dal trasecolare della giovinezza efebica al prodigio dei colori iridescenti. Qui la Morte non è più la Morte ma, per singolare contraddizione, provvisorio commiato e promessa di ritorno nella limpida Luce di un indimenticabile giorno di primavera che profuma di gioventù.

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Rosso Fiorentino  

'La Deposizione' [1521]

Volterra, Museo Civico 

Una concitata e coinvolgente messa in scena teatrale con una sceneggiatura a tema sacro, è questa la prima impressione che suscita la celeberrima Deposizione di Giovan Battista di Jacopo di Gasparre, meglio conosciuto come il Rosso Fiorentino, protagonista eccentrico ed eclettico della spettacolosa stagione del manierismo toscano. In quest'opera, firmata e datata 1521, il Rosso, in veste di regista esigente e fantasioso, inventa e dirige a suo modo l'episodio evangelico sovrapponendo situazioni diverse nell'unico palcoscenico in cui si consuma la tragedia. A dominare l'opera, sulla sommità della croce, è la scomposta figura in pericoloso equilibrio di Nicodemo, in abito vermiglio e copricapo azzurro, nel ruolo di grottesco capomastro che riprende un operaio che, a sua volta, pare goffamente giustificarsi della maldestra manovra operativa mentre gli altri assistono attoniti al misfatto, più preoccupati di non cadere rovinosamente al suolo. La parte superiore della pala è dunque l'aspetto pratico, diremmo profano del tema sacro, ed è qui che il Rosso pare concentrare la sua attenzione, trasformando delle mere comparse in attori protagonisti. Il Cristo, con il capo reclinato al cielo, presenta già il sinistro colorito della morte, mentre viene pietosamente abbracciato da un altro assistente. Lo spazio del Dolore è riservato ai piedi dell'imponente croce. Qui troviamo un piccolo gruppo di pie donne, paludate in abiti vivaci ed eleganti: sono le Marie, che la luce incidente rende simili a sculture viventi nella definizione netta e spigolosa dei volti e dei panneggi. La solennità del momento è spezzata dall'improvvisa irruzione della Maddalena, composta con acconciatura aristocratica e veste scarlatta, che crolla in ginocchio dinanzi alla Vergine oramai già priva di conoscenza, col volto carezzato da una tenera ombra. L'assistente più giovane che regge la pesante scala, compresa la drammaticità del momento, rivolge uno sguardo compassionevole alle donne, quale commovente segno di umana partecipazione. Giovanni evangelista, anch'egli elegantissimo in abito azzurro e manto color avorio, in preda ad un devastante travaglio emozionale, si allontana coprendosi il volto. Rosso Fiorentino, con questo capolavoro diventato nel tempo un'opera iconica, non ha inteso dissacrare l'episodio del Cristo, quanto restituirci un'immagine inedita, più vicina all'umana comprensione, dove il pragmatismo terreno si coniuga con la verità divina. Per questo artista, tutto fa parte della vita. Ogni scena è importante, ed ogni personaggio ha un ruolo che riveste con ferma dignità, gli umili operai come i Santi, tutti sullo stesso piano di considerazione. E forse, dietro lo spettacolo di azione e colore creato dal Rosso, in cui trova il tempo ed il pretesto per curare persino gli abiti dei protagonisti, si cela proprio questo paradigma di uguaglianza così vicino ma così lontano dalla piena comprensione umana. L'insegnamento del Cristo, uomo fra gli uomini prima ancora di essere riconosciuto come figlio di Dio, che ha vissuto la disperata solitudine del Dolore come tutti noi.

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CHRISTO l'Arte della Meraviglia

Nel lungo percorso della storia dell'arte, nel susseguirsi di correnti di pensiero, mode e tendenze, vi sono momenti legati a particolari figure che costituiscono delle pietre miliari, dei punti di riferimento che determinano un cambiamento radicale del gusto e del modo di concepire un'espressività. Per certi versi, avvertiamo che nulla sarà più come prima perché troppo intensa è la forza di compenetrazione e la relativa influenza sui fenomeni successivi. E' il caso dell'artista bulgaro Christo, un personaggio singolare che della libera espressione ha saputo, coraggiosamente, fare la sua bandiera non senza ostacoli e difficoltà sia organizzative che politiche. La sua idea di opera d'arte inizia da un presupposto semplice: conquistare spazi immensi, intervenire con delle tracce significative per realizzare un qualcosa senza precedenti che modifichi, temporaneamente, il paesaggio naturale o quello metropolitano. Nascono così i celebri 'impacchettamenti' di edifici, ponti, fontane e monumenti che diverranno la sua inconfondibile firma e che gli regaleranno notorietà universale. Con alcune imprese, addirittura, leggendarie. Come l'impacchettamento nel 1995 del Reichstag di Berlino con uno speciale tessuto color argento che rifletteva la luce creando un effetto dinamico straordinario, un progetto ambizioso che fu realizzato nonostante la forte contrarietà dell'allora cancelliere Kohl. E poi, ancora, le file chilometriche di oltre 3000 ombrelloni autoportanti azzurri e gialli, alti più di 6 metri, piantati sia in California che in Giappone, simili a provvisori accampamenti volti a ricavare piccoli spazi di rifugio e meditazione nella vastità della natura, o il Pont Neuf di Parigi, il ponte più vecchio della capitale francese, che fu imballato con 41.000 metri quadrati di tessuto sintetico legato con 13.000 metri di corda e 12 tonnellate di catene di acciaio che cingevano la base di ogni torre. Tutti progetti finanziati attraverso la vendita dei disegni preparatori, con pochissimi contributi pubblici e donazioni. I materiali impiegati, per lo più scarti industriali, venivano in seguito riciclati e riutilizzati senza alcun impatto ambientale. Il ruolo di Christo e dell'attivissima consorte Jeanne-Claude, firmataria anche delle opere e fervente organizzatrice, è stato quello di aver abbattuto le barriere dell'Impossibile e inventato una modalità senza precedenti nell'ambito della Land Art attraverso il confronto ed il rispetto della natura e della storia. Un'Arte accessibile a tutti senza biglietto di ingresso o altre limitazioni, e priva di quegli estremismi concettuali che creano distanza. Le tavolozze di Christo sono state le ammalianti visioni della Natura così come le architetture-simbolo della grandi capitali. 'Meravigliare occultando' fu il precetto fondamentale. L'invenzione dell'imballaggio gigantesco e l'intervento spettacoloso ed incantante nella morfologia del territorio sono stati il potente segnale che ha acceso l'immaginazione dell'Inconscio collettivo di intere generazioni. La materializzazione dell'impossibile si è rivelata un tributo alle infinite capacità dell'uomo di essere presente con la consapevolezza del 'fare' tecnologico. Non a caso, gli antichi Greci definivano l'Arte con il termine 'téchne' il quale, nella loro concezione, restituiva l'idea della tangibile produzione di un manufatto. La sue recente impresa, la passerella giallo-arancio sul Lago d'Iseo, ha rappresentato l'ultimo regalo al nostro Paese. Mesi e mesi di calcoli, valutazioni ed allestimenti, nel giugno 2016, per soli 15 giorni di esposizione. L'opera fu visitata, in quel breve periodo, da un milione e mezzo di persone, rivelandosi anche una colossale operazione di promozione e marketing del lago lombardo. Oggi che Christo non è più fra noi, ci rimangono i suoi sogni fermati negli schizzi preparatori a mano libera e nei preziosi progettini su fogli quadrettati, colorati con pastelli e pennarelli. Null'altro di suo possiamo realmente vedere eppure, nella memoria, tutti siamo in grado di ricomporre quelle suggestioni 'incartate'. Come se il Maestro avesse voluto consegnare dei giganteschi pacchi regalo per l'Umanità intera utilizzando anche l'acqua, il sole, il vento, lo spazio aperto. Ma le sue invenzioni 'provvisorie' continuano e, nel 2021, verrà 'confezionato' – sempre per pochi giorni – l'Arco di Trionfo di Parigi. Con un'ultima riflessione: che non c'è nulla di più definitivo del provvisorio.

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Giovanni Bellini  

'Sacra Conversazione' [1505]

Venezia, Chiesa di San Zaccaria 

Questa celebre opera, commissionata dalle monache patrizie del convento veneziano di San Zaccaria, adiacente l'omonima chiesa, è probabilmente il capolavoro di Giovanni Bellini, punto di riferimento della grande scuola veneta, che traduce la ricercata lezione di Mantegna ed il rigore prospettico di Piero della Francesca con una inconfondibile delicatezza stilistica. La Sacra Conversazione è perfettamente ambientata in una nicchia che riprende i motivi architettonici circostanti con pregevole capacità esecutiva, creando un notevole effetto illusionistico di sfondamento. Ai lati della scena, due spicchi di cielo azzurro conferiscono luminosità e ulteriore apertura prospettica alla composizione. L'incontro fra la Madonna, il Bambino ed i Santi non appare particolarmente animato ma, al contrario, estremamente pacato, per non dire silenzioso. La comunicazione non è verbale ma sembra procedere con una modalità diversa, totalmente spirituale, che rende superflue e limitative le parole. I Santi, quasi immobili, in atteggiamento solenne e contemplativo, sono immersi in una dimensione di Pensiero irraggiungibile all'umana facoltà dell'intelletto. La Vergine, assisa in atteggiamento solenne sopra un trono con la testa di re Davide sulla sommità, sorregge il Bambino benedicente che pare essere il moderatore della discussione muta. San Pietro, futuro primo papa, con il volume della Bibbia e le grosse chiavi fra le mani, lo sguardo greve rivolto verso il basso, appare oramai distante da ogni questione terrena; dalla parte opposta, San Girolamo, con la lunghissima barba bianca e la caratteristica veste vermiglia, concentra l'attenzione sulla complessa lettura di un testo sacro. Alla destra della Vergine compare la nobile figura di Santa Caterina d''Alessandria, melanconica ed introversa, riconoscibile dal frammento della ruota del martirio carezzato con la mano sinistra, mentre l'altra sorregge un ramo di palma. Ma, la vera protagonista della scena, colei che può rivelarci la chiave di lettura di questo dogmatico dipinto, è la donna con i lunghi capelli biondi all'altro lato del trono, in elegantissimo abito indaco con preziosi ricami. L'indizio che richiama la sua precisa identità è l'ampolla di cristallo portata con una mano che contiene il tragico attributo del martirio: sono gli occhi che le furono strappati al tempo delle crudeli persecuzioni di Diocleziano. Si tratta di Lucia, la animosa ragazza siciliana che divenne santa per l'incrollabile dedizione a Cristo e per la difesa della sua Virtù. Ma, miracolosamente, il bellissimo volto non riporta i segni dell'orrenda mutilazione perché, secondo la tradizione cristiana, fu lei stessa a ricomporli fra l'incredulità dei suoi persecutori. Ed è proprio Santa Lucia a parlarci – pur tacendo – nel silenzio metafisico, a consentirci di risolvere un problema teologico. Quell'ampolla che contiene i suoi bellissimi occhi rivela il significato di un'allegoria sapienziale che rappresenta una delle pietre angolari del cammino di ascesi dell'ente umano. Ovvero: non sono gli occhi, intesi come organo fisico, a 'vedere' la Verità divina ma la Luce del Cuore, l'illuminazione raggiunta dopo un lungo cammino esistenziale che travalica le dolorose prove del vivere e conduce verso le porte del Bene assoluto, del Tutto e del Sempre. Gli occhi ci restituiscono l'immagine del mondo ma non necessariamente la sua Verità, che va ricercata per altre vie non visibili. E' dunque la magia della 'vista interiore' a compiere il prodigio della Rivelazione, ovvero lo sguardo dell'Anima che va ben oltre l'illusoria ed ingannevole apparenza delle cose mondane. Il sacrificio della Santa siracusana porta in sé questa nuova Luce, questo dono che viene consegnato come un tesoro agli altri protagonisti della suprema conversazione silente. Completa la composizione religiosa, ai piedi del trono divino, un angiolino musicante con la lira da braccio, unico personaggio a guardare misericordioso verso di noi, quasi a volerci consentire un ponte fra il Cielo altissimo ed il mondo terreno delle lacrime e dei sospiri.

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